giovedì 16 aprile 2009

Linguaggio e realtà/1

Il linguaggio che utilizziamo reca sempre con sé la traccia di ciò che siamo e di come pensiamo di agire: manifesta – al di là di ciò che diciamo – le nostre reali intenzioni (ovvero, quando cerchiamo di nasconderle, le tradisce). Non mi riferisco al lapsus, ma al modo in cui, in generale, ci esprimiamo. Perché la lingua non è mai neutrale; ad esempio, coniare il termine “risorse umane” ha certamente una ben precisa fonte, nonché un ben preciso sbocco: il termine deriva da una concezione dell’uomo come merce, all’interno di un’economia che non distingue tra beni da consumare e lavoro umano e tratta entrambi come un costo da sostenere (più spesso da abbattere); e sfocia in una concezione del mondo cui sembra normale e anzi ragionevole licenziare dei lavoratori quando di essi non c’è più bisogno ai fini della produzione.
Preciso che qui non ne faccio alcuna considerazione di merito (men che meno una condanna); preciso anche che non importa quanto il processo di formazione e utilizzo di certe parole sia consapevole o deliberato (anzi, le rivelazioni più illuminanti è proprio l’inconscio a regalarle). Mi limito ad enunciare un dato di fatto: linguaggio e realtà sono inestricabilmente connessi. (Motivo per il quale, sempre nell’ambito dello stesso esempio, nessun manager si sognerebbe di dire “licenziamento di massa”, espressione cui si preferisce “piano di ristrutturazione”). La stessa cosa, con parole diverse, è diversa.

Linguaggio e realtà sono inestricabilmente connessi. La stessa cosa, con parole diverse, è diversa

Un altro piccolo esempio recente: il 24 febbraio scorso "La Stampa" ha pubblicato un’intervista a Nicolas Sarkozy, nella quale il presidente francese afferma che «siamo entrati in un’era di potenze relative, in cui nessun Paese è più in grado di imporre la propria visione delle cose»; nella stessa colonna dice poi che «l’essenza del progetto europeo è esattamente quella di far prevalere le idee di partenariato e solidarietà su quelle di concorrenza e rivalità» (corsivo mio). Gustoso, no? Anche quando i discorsi cambiano, le logiche rimangono le stesse. Ed è il linguaggio a rivelarlo.
Come ben sa la pubblicità, l’uomo assorbe molto di più di quanto riesca veramente a digerire. Solo una minima parte di ciò che apprendiamo lo capiamo appieno. Lo sapevano i nazisti, primi grandi produttori di propaganda su scala industriale, lo sanno i fisici (per i quali “non si capisce mai veramente una nuova teoria, ci si abitua soltanto”). Un certo tipo di politica sembra cavalcare questa conclusione e, si direbbe, anche con una certa efficacia. Non c’è bisogno di ristampare ogni volta tutti i libri di storia (come nell’orwelliano 1984) affinché una falsità divenga vera: oggi basta semplicemente ripetere un ritornello – in tv, alla radio, sui giornali – perché un’affermazione, qualunque sia il suo contenuto, diventi assodata, conclamata, ufficiale (tanto, i libri di storia, chi li legge? Per uno che legge, ce ne sono sempre dieci che non lo fanno; eppure, alla fine, vanno a votare tutti e dieci). La politica lo ha capito. E noi?

(«Il Caffè», 3 aprile 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano