giovedì 16 aprile 2009

R. Panikkar, La tragedia del grande inquisitore, ed. MC, 2008

Raimon Panikkar non finisce mai di stupirci. Ci ha stupito qualche mese fa, partecipando – quando tutte le previsioni, a causa del precario stato di salute, davano per improbabile la sua presenza – al Convegno internazionale tenutosi a Venezia dal 5 al 7 maggio 2008, dedicato al suo pensiero in occasione del novantesimo compleanno (novembre 2008); ci ha stupito ancora in quella stessa sede, presentando a sorpresa il primo volume della sua Opera Omnia in italiano, edita dalla Jaca Book di Milano. Non manca di stupirci anche oggi, con questo nuovo libro, prima opera letteraria del filosofo catalano (scritta «in occasione della chiusura del giubileo cristiano dell’anno duemila come continuazione della Leggenda di Dostoevskij e come riflessione di critica e di speranza», p. 11): si tratta infatti di un racconto, sulla base del quale Michela Bianchi ha scritto un suggestivo testo teatrale che verrà rappresentato a Milano ai primi di dicembre.
Lo spunto è offerto dal racconto del Grande Inquisitore che Dostoevskij inserisce nei Fratelli Karamazov: nella Siviglia del massimo potere dell’Inquisizione (cinque secoli fa) Cristo ritorna sulla terra a fondare finalmente il regno di Dio, ricordando a tutti che il fondamento della vita cristiana è la libertà dello Spirito e non la costrizione della “lettera che uccide” (2Co 3,6); il cardinale Grande Inquisitore, comprendendo i rischi sociali di questa dottrina, lo fa imprigionare per condannarlo a morte. Questo per il bene del suo stesso popolo, abituato allo spirito del gregge ben più che a quello della responsabilità personale, e che perciò ha bisogno di disciplina e non di libertà: perché la disciplina consente il mantenimento dell’ordine, che certo limita e costringe, ma garantisce la sussistenza minima, mentre la libertà rischia a ogni passo di degenerare nel caos. La storia si chiude con il Prigioniero che, senza uscire dal suo silenzio, aspetta la fine del monologo dell’inquisitore novantenne per baciarlo sulle labbra; il quale, estremamente turbato, apre la porta del carcere e lo fa uscire, dicendogli: “Va’ via ora, e non tornare mai più”. L’immagine dell’inquisitore offerta da Dostoevskij è quella di un uomo che a modo suo è “in buona fede”, genuinamente preoccupato per la sorte dei suoi fratelli, ma che in fin dei conti non ha nessuna fiducia in Dio (perché non ne ha nell’uomo) e crede solo al sistema di cui fa parte e che contribuisce a tenere in piedi, l’istituzione tramite la quale si adopera per mantenere l’ordine stabilito, lo status quo.
Panikkar riparte proprio dal punto in cui si ferma la narrazione di Dostoevskij, dalla sagoma del prigioniero che si perde, in lontananza, “per le vie oscure della città”. La vicenda è ambientata ai nostri giorni (il parallelo tra la nostra mentalità “moderna”, ansiosa di tutto controllare, di “sicurezza”, e quella dell’inquisitore è evidente, non val la pena soffermarcisi), e si ricostruisce attraverso il ritrovamento di un plico lasciato dal cardinale, con l’espressa indicazione “da aprire soltanto dopo 15 generazioni”; dal contenuto del plico si viene formando la figura dell’inquisitore che, dopo aver lasciato libero il prigioniero, si accascia sulla sedia, all’interno della cella, e riflette sulla sua condizione personale, passata presente e futura, dalla quale – nonostante il suo grande potere, ovvero proprio per quello, sottolinea Panikkar – non può svincolarsi neanche per un attimo, tanto che nel bel mezzo del suo rimuginare viene interrotto dalle guardie, che vengono a richiamarlo al suo dovere: egli deve firmare al più presto una ulteriore condanna a morte, che puntualmente firmerà.
Il racconto di Panikkar è breve, ma denso di motivi filosofici e teologici, dalla discussione sulla “antisocialità” del Prigioniero all’ambiguità di una cristianità che arriva a festeggiare il “Cristo re”; motivi che l’originale versione teatrale – la quale forma la seconda e più consistente parte del volume – rende ancora più emozionanti e coinvolgenti. L’edizione è molto gradevole e ben curata, arricchita dalle immagini in bianconero di Francesco Santosuosso.

(«l’Altrapagina», Città di Castello (PG), novembre 2008)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano