giovedì 16 aprile 2009

Z. Bauman ed al., Della politica, ed. Armando, 2008

C’era una volta il West. Nell’età coloniale era prassi (oltre che uno dei moventi più pressanti dello stesso colonialismo) inviare gli “esuberi” dell’Europa a “cercare fortuna” in terra straniera; la manodopera in eccesso veniva fatta emigrare in terre lontane disposte ad accogliere la manovalanza: si riusciva così a mantenere in patria lo status quo, con un livello di salari piuttosto alto. Un tipico esempio di soluzione “globale” a un problema “locale”: in altri termini, il problema sociale che non è possibile risolvere all’interno della società che lo ha prodotto, veniva “esportato”, spostato su di una scala ultra-locale.
Bauman osserva che oggi, nell’era globale, soluzione di questo tipo non sono più praticabili, perché ormai “il pianeta è pieno”: non esistono più “terre di nessuno”, prive di un governo sovrano, aperte all’esplorazione e al popolamento. Anzi, si assiste all’inversione del paradigma “dal locale al globale”: oggi ci si trova in casa problemi derivanti dal funzionamento del mercato globale. Classico l’esempio del welfare: come può uno stato occidentale mantenere un elevato livello di welfare al suo interno (cioè servizi, soprattutto per le fasce di reddito più basse della popolazione, che implicano un proporzionale livello della tassazione) mentre si trova sotto il ricatto delle aziende, che minacciano di rilocalizzare la produzione in aree geopolitiche dalle minori pretese sindacali e sociali?
La politica viene dunque a trovarsi stretta in una morsa, tra i problemi provenienti dall’esterno e la difficoltà (se non l’impossibilità) di influire sui meccanismi che li generano. Bauman rileva trattarsi di un problema tanto della politica quanto del singolo: nelle nostre “società degli individui”, dove la libertà viene garantita a scapito della solidarietà e la sicurezza genera sistematicamente l’esclusione, il cittadino si trova spesso ad avere “di diritto” delle possibilità che, di fatto, non è in grado di sfruttare. Così, ad esempio, l’individuo ha diritto sacrosanto alla propria indipendenza, eppure ben di rado ha di fatto la certezza di mantenere il proprio posto di lavoro per i successivi sei mesi. In breve, l’economia è dilagata nello spazio umano a tal punto da erodere quasi ogni margine di politica autonoma, cioè veramente tale; ogni possibilità di incidere sull’andamento del proprio mondo si riduce al mero diritto di voto.
Ne scaturisce una politica che insegue i dettagli e perde di vista il quadro generale, concentrata sul breve termine e incapace di guardare al di là dell’orizzonte della singola legislatura. Questo è il tema del saggio di Giuseppe Fioroni, incentrato sull’analisi delle mancanze della politica italiana degli ultimi anni nel contesto della situazione mondiale, con accenni sporadici ma mirati alle intenzioni e al ruolo del Partito Democratico negli anni a venire (argomento affrontato anche da Franco Garelli nel saggio che chiude il volume). Fioroni ritiene che, poiché la politica è espressione della comunità, soltanto il rinsaldarsi della comunità potrà portare ad un’autentica rigenerazione della politica: «anche la scelta di fare a meno dei “valori”, perché ritenuti ammuffiti, odoranti di sacrestia, inconciliabili con l’idea di modernità, ha favorito la situazione a cui oggi assistiamo: una politica senza valori ha perduto il riferimento a quel “comune sentire” che costituisce un popolo, e che permette ai singoli di accettare un sacrificio nel momento presente, perché le condizioni di vita di tutti migliorino in futuro [...] Oggi, abbiamo la conferma che una politica senza valori genera una società senza dignità, senza solidarietà, senza rispetto della vita né della morte» (p. 13).
A ciò si accompagna l’idea di una “politica del limite”, che sappia integrare etica ed economia, che permetta di “vivere bene” (istanza che viene inclusa oggi addirittura nelle costituzioni della Bolivia e dell’Ecuador) invece che di “vivere e basta”. Una politica che guidi l’uomo verso uno sviluppo armonioso invece che unilaterale, volto soltanto all’accumulazione indefinita di beni di consumo. Obiettivo ambizioso che pone subito il discorso sul piano transnazionale e conferma dunque indirettamente la tesi di Bauman esposta in precedenza: non esistono soluzioni locali ai problemi globali, se non di corto respiro e alla fin fine insoddisfacenti.
Se c’è la speranza di una via d’uscita da questa impasse, essa non risiede nel futuro delle possibilità generiche, degli entusiastici we shall overcome, bensì nella capacità dell’uomo di dar luogo a una creatio continua (p. 58), di andare oltre l’angusto regno del “possibile” verso il libero “non ancora”, che la ragione non conosce perché impensabile a priori, ma che non per questo è assurdo o impossibile (come osserva, in chiusura del suo saggio, Edgar Morin, p. 75). “La politica è l’arte dell’impossibile” (Raimon Panikkar). La partita della politica è ancora tutta da giocare.

(«Filosofia.it» online, ISSN 1722-9782, febbraio 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano