lunedì 1 giugno 2009

C. Fracassi, La ribelle e il Papa Re, ed. Mursia, 2009

Roma 1867: Porta Pia, accesso allo Stato Pontificio, sede di quel regno temporale che tanto scandalo desta fra i cittadini romani, è ancora intatta. Verso le sette e mezza del 22 ottobre, due anarchici «poverissimi, [...] cattolici devoti, rispettosi del Papa e della sua autorità spirituale», Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, danno luogo a un attentato dinamitardo alla caserma Serristori degli zuavi pontifici: il boato si avverte fino a Trastevere.
Intorno a questo episodio è costruito l’ultimo libro di Claudio Fracassi, già direttore del quotidiano «Paese sera» e del settimanale «Avvenimenti», dal titolo La ribelle e il Papa Re. Fracassi fa muovere sul palcoscenico della narrazione, con ordine e armonia, e tuttavia riuscendo a riprodurre l’atmosfera concitata ed eccitata di quei tempi di fermento insurrezionale, una galleria di personaggi affatto diversi – dal muratore al nobile romano, al prelato – che si esprimono in maniere diverse – chi comunica tramite bigliettini stringati, chi tramite messaggi in codice, chi ancora parla nei dispacci ufficiali e chi invece si confessa a voce al proprio compagno o al passante occasionale – ma che, non di meno, convergono tutti insieme – ognuno dal proprio lato della barricata – nello scrivere la pagina storica di quella tumultuosa giornata, i cui eventi si concluderanno solo tredici mesi più tardi, con la condanna a morte dei due attentatori.
Tra i personaggi vi sono i grandi della Storia, Garibaldi, Bismarck, Napoleone III, Mazzini, Crispi; ma non meno avvincenti sono i gesti, i modi, i sussurri di quelli più “piccoli”: come ad esempio Vittorio Ferrari, liceale di Udine, ardente del sogno rivoluzionario ma alla cui gioventù e inesperienza pesano tanto la baionetta quanto la pioggia che “infradicia le midolla”. O come Lorenzo Ilarione Randi, capo della polizia pontificia al momento dell’insurrezione, che più tardi – anche per i meriti maturati in quella circostanza – verrà creato cardinale.
Ma su tutti spicca Giuditta Tavani Arquati, protagonista di questa storia, donna “di bellissimo aspetto”, politicamente molto attiva, che si occupava del collegamento fra i patrioti garibaldini e liberali e i romani già pronti a insorgere. Sullo sfondo, mai direttamente visibile ma onnipresente quanto nessun altro, Pio IX, il “Papa Re”, e il suo enorme potere, spirituale e mondano. Uomo che poté negare la grazia richiesta ai due condannati a morte con una motivazione a posteriori quanto meno «singolare», confidata a un sacerdote a lui vicino: «avrebbe fatto loro la grazia, ma per il meglio della loro anima avea creduto meglio negarla. E veramente fu un’ispirazione di Dio, giacché dopo solo qualche anno, entrando l’esercito italiano qui a Roma, e liberati i politici, costoro sarebbero stati considerati come eroi dell’indipendenza italiana e sublimati, e cogli onori e con larghe ricompense del tutto guasti e corrotti» (p. 10).
Scritto con uno stile leggero ma incisivo e fedele alla documentazione archivistica, La ribelle e il Papa Re è il racconto avvincente di una bella pagina della nostra storia, ma è al contempo la condanna di un certo cristianesimo ancora ben presente e operante ai nostri giorni, che – ora come allora – di fronte al mendicante con la mano tesa, piuttosto che elargire l’elemosina preferisce sentenziare: “beati i poveri!”. Cui ben si addice l’ironia tipica dei vent’anni del Tognetti il quale, di fronte a monsignor Pagni, venuto in carcere a leggere la sentenza e a comunicare che il Papa aveva rifiutato la grazia ma recava loro la sua apostolica benedizione, sbottò: “Il Santo Padre ci vuole molto bene! Per farci arrivare più presto in paradiso, manda il boia ad aprirci la porta!”

(«l'Altrapagina», maggio 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano