martedì 19 maggio 2009

Pirati fai da te. Intervista a Maurizio Torrealta, 24 aprile 2009

Da più di quindici anni il mondo assiste al fenomeno cosiddetto della pirateria al largo della costa della Somalia. Navi commerciali che si avventurano in quel tratto di mare vengono letteralmente abbordate e sequestrate. A volte, soprattutto se si tratta di petroliere, gli equipaggi vengono presi in ostaggio e si chiede un riscatto per la loro liberazione. Nel solo 2008 sono stati compiuti 167 arrembaggi, più di 100 navi sono state catturate, tra cui 17 petroliere. La questione ha proporzioni talmente ampie e ricadute economiche tanto devastanti da indurre compagnie marittime come la Moeller Maersk a girare al largo, facendo rotta al di là del Capo di Buona Speranza per evitare il Canale di Suez (operazione che comporta tuttavia un aggravio di spesa del 40% e un allungamento della durata del viaggio da 5 a 15 giorni).
Per alcuni si tratta di “bucanieri” e di “filibustieri” cui tributare simpatia (è il caso, ad esempio, di Massimo Fini, «La voce del ribelle», febbraio 2009), per qualcun altro si tratta invece di “guardiacoste” che cercano di salvaguardare le acque somale dai criminali europei che vi sversano rifiuti tossici (come per il rapper somalo-canadese K’Naan sulla rivista statunitense «Urb Magazine», aprile 2009), altri ancora li ritengono dei semplici criminali che utilizzano i riscatti per finanziare il terrorismo internazionale (cfr. Fred C. Iklé, «The Washington Post», aprile 2009, Stati Uniti).
Per provare a gettare uno sguardo al di là delle nebbie delle opinioni contrastanti, ci siamo rivolti a Maurizio Torrealta, giornalista di RAINews24, che fin dal 1995 ha indagato sull’omicidio della giornalista Ilaria Alpi e del suo cameraman, Miran Hrovatin, entrambi del TG3, avvenuto in un agguato a Mogadiscio (Somalia) il 20 marzo del 1994 (caso sul quale Torrealta ha anche scritto un libro, L’esecuzione. Inchiesta sull’uccisione di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin, con Mariangela Gritta Grainer e Giorgio e Luciana Alpi, ed. Kaos). Nel corso di quell’indagine Torrealta ha avuto modo di venire a contatto con la realtà di quelle zone e anche direttamente con alcuni “pirati”, che hanno contribuito significativamente a far luce sull’intreccio tra la pirateria e il traffico di armi e di rifiuti tossici in Somalia, e in particolare sul coinvolgimento dei servizi segreti italiani. (Ricordiamo en passant – per dare in qualche modo la misura dell’atmosfera che pesava su quell’inchiesta – che il 28 gennaio del 2005, l’abitazione e la postazione RAI di Maurizio Torrealta sono state perquisite su disposizione della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli omicidi di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin).
Abbiamo rivolto a Maurizio Torrealta alcune domande.

Si parla tanto del “ritorno della pirateria” a proposito dei sequestri di navi ed equipaggi avvenuti al largo della costa somala. Come stanno le cose?
Anzitutto, nulla del passato torna mai nella stessa forma. Quello della odierna “pirateria” è un fenomeno tutto contemporaneo che affonda le sue radici nella struttura del mondo globalizzato. Già il termine “pirateria” è a mio avviso scorretto, in quanto – più che un determinato vissuto storico – richiama certe immagini salgariane del pirata, romantiche e in un certo senso leggiadre, che nulla hanno a che fare con l’attualità. Qui abbiamo a che fare con dei “miliziani”, che si definiscono tali e che agiscono sui mari, non con dei filibustieri; è gente che si è organizzata per intercettare quelli che si muovono nell’ambito della zona da essi controllata e che, di norma, non uccide nessuno. Va da sé che, come nel caso del blitz statunitense per liberare gli ostaggi, essi rispondono alla forza con la forza: e lì il morto può scapparci facilmente.
La mancanza di un atteggiamento di “conquista”, che li porti a sconfinare oltre il loro territorio, induce il sospetto che il loro vero obiettivo sia “spaventare” gli stranieri e tenerli alla larga da quel tratto di mare.
Più che di “spaventare”, si tratta probabilmente del tentativo di ristabilire a modo proprio un equilibrio turbato. Come ho avuto modo di approfondire quando ho indagato sull’assassinio di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin, a lungo (almeno fin dal 1995) i Paesi europei hanno pescato in quelle acque e venduto armi in quelle zone, facendosi ripagare non con del denaro, bensì con l’indicazione di luoghi dove scaricare rifiuti tossici. Questa gente è stanca di vedere la propria terra e la propria acqua ridotte ad immondezzaio di quei Paesi europei che, pescando a strascico in quelle stesse acque, portano via tutto il loro pesce. E come spesso accade quando si subisce troppo a lungo in silenzio, la reazione può essere violenta e fuori misura.
Da qualche parte viene negato che la vicenda di Ilaria Alpi abbia a che fare con il traffico di armi e di rifiuti tossici in quella zona; si nega anche tali traffici abbiano effettivamente avuto luogo. Ciò nonostante i ritrovamenti sulle rive del Puntland, in seguito allo tsunami del dicembre 2004, di container dal contenuto “discutibile”: uranio, materiale radioattivo, piombo, cadmio, mercurio, secondo Nick Nuttall, portavoce del programma ONU per l’ambiente. E ciò nonostante, ancora, migliaia di abitanti del Puntland si siano ammalati di gravi forme di cancro proprio in seguito ai ritrovamenti. Cosa ne pensi?
Mi sono diffuso a lungo in passato su questo tema. Mi limiterò qui a parlare di un solo caso. Una equipe formata dall’inviato del settimanale di Famiglia Cristiana, Luciano Scalettari, da uno degli ideatori del Premio Ilaria Alpi, Francesco Cavalli, dal deputato dei Verdi, Mauro Bulgarelli e dall’operatore Alessandro Rocca, è tornata sulla strada Garowee Bosaso, la strada cioè dove passarono Ilaria Alpi e Miran Hrovatin durante il loro ultimo viaggio in Somalia e dove effettuarono lunghe riprese prima di tornare a Mogadiscio dove persero la vita. Al chilometro 140, lungo la strada l’equipe ha rilevato con un magnetometro la presenza di metalli interrati, presumibilmente fusti contenenti rifiuti tossici, come ha raccontato un autista somalo che li aveva trasportati in quel posto. Di questo ma anche delle patologie riscontrate tra i pescatori dei villaggi della costa, dove sono stati trovati i bidoni con i veleni strappati ai fondali marini dall’onda dello tsunami del dicembre 2004 si è parlato in uno speciale di RAINews24 del 23 settembre 2005.
Non ipotizzi nessun legame diretto dei miliziani con governi o servizi segreti, e nemmeno con il fondamentalismo islamico ed Al Qaeda, lo spettro che non cessa di aggirarsi per l’Occidente?
Quando si ha a che fare con fenomeni di una certa ampiezza, è ovvio che non si tratta mai di qualcosa di perfettamente omogeneo. Non possiamo escludere che vi siano gruppi con finalità terroristiche, magari legati all’Islam radicale, né che ci sia qualcuno che opera al soldo di questo o quel governo. Tuttavia le motivazioni fondamentali che vedo prendere corpo in un quadro d’insieme coerente e verosimile, sono le due che ho indicato prima: i moventi sono cioè essenzialmente quello di evitare la depredazione del pesce e quello di impedire lo sversamento di rifiuti tossici. Questa gente è stufa di stare al rimorchio di un’economia che avvantaggia solo l’Occidente e di un diritto internazionale che non fa altro che dir loro di starsene buoni. Questa gente rivendica il diritto pre-globale di comandare in casa propria. E lo fa nell’unico modo a sua disposizione: l’azione estemporanea, il sabotaggio, come in ogni guerriglia locale.
Che insegnamento possiamo trarre da questo fenomeno della “milizia marina” somala?
Che, qualunque cosa si faccia, bisogna avere la coscienza a posto. Come quel miliziano che ho intervistato nel 1995, il quale andò a riferire al magistrato italiano (il giudice Pititto), che allora indagava sul caso Alpi, le stesse cose che mi aveva detto in privato qualche tempo prima, sul traffico di rifiuti tossici e sul ruolo dell’intelligence italiana. Avrebbe potuto rifiutarsi, o nascondersi; e invece comparve dinanzi al giudice senza paura, a testa alta. Non voglio tessere l’elogio romantico di questo “eroe”, ché eroe non è. Aveva però la percezione chiara di aver agito secondo un certo “diritto”: aveva insomma la convinzione di essere nel giusto. Dovremmo aspirare allo stesso livello di “innocenza”. Ma non potremo farlo, finché continueremo ad usare quei Paesi e quei popoli come pattumiera delle nostre civiltà. Nella nostra epoca globale ogni sviluppo deve essere pensato “con l’altro”, non “sulle spalle dell’altro”. Non è una questione di diritto, foss’anche internazionale. È una questione di giustizia.

(«l'Altrapagina», maggio 2009, pp. 27-28)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano