venerdì 5 giugno 2009

Linguaggio e realtà/2

La nostra vita si svolge ogni giorno alla frontiera. Anche quando non ce ne accorgiamo, ci muoviamo in uno spazio fatto di barriere da oltrepassare, di ostacoli da superare. Così, ad esempio, entriamo in ufficio strisciando un badge magnetico; se lo dimentichiamo, i tornelli ci impediranno l’accesso. Allo stesso modo, partecipiamo a una cerimonia con l’abito adatto; senza, evitiamo di andarci. Ma ci sono anche quelle barriere che non andrebbero superate, come il bordo del marciapiedi della metropolitana di Napoli, che una ventiquattrenne di Gricignano ha superato lo scorso 20 aprile: di qua, una donna separata con tre figli; e la vita. Di là, la morte.
Molte e diverse sono le frontiere della nostra quotidianità: quelle più impalpabili – ma non meno intense – sono le parole. Daniela De Robert, giornalista del TG2, lo mette in evidenza nel suo recentissimo Frontiere nascoste, edito da Bollati Boringhieri. Le parole possono accogliere o respingere, unire o separare, alzare un muro o costruire un ponte. In ogni caso, la loro opera non è meno efficace e duratura di quella di un muratore.

Il pregiudizio crea la realtà che afferma. Cresce quando trova conferme, rimane indifferente di fronte alle smentite: vive oltre i fatti.
D. DE ROBERT, Frontiere nascoste, ed. Bollati Boringhieri

Ci sono le parole della discriminazione: negli Stati Uniti, i lavoratori clandestini vengono denominati “wetbacks” (schiene sudate). Questo non li rende più o meno sudati, o irregolari. Ma veramente crediamo che la nostra relazione con loro rimanga inalterata da questo modo di dire? Se si tratta solo di parole, per quale motivo non ci piacerebbe che lo stesso si dicesse di nostro fratello? Ci sono le parole dell’oblio: in Irlanda, la guerra civile viene chiamata “troubles” (disordini), mentre i confini tracciati per separare i cattolici dai protestanti (dove avvengono in prevalenza gli scontri), si chiamano “peacelines” (linee della pace). Ci sono le parole della giustificazione: in Palestina, “i territori occupati” diventano “i territori”, i morti tra i civili non sono “uccisi dall’esercito israeliano” bensì “trovano la morte”.
Fa tutto parte di quell’unica grande manipolazione che lo scrittore israeliano David Grossman ha chiamato “lavanderia del linguaggio”, il cui scopo è la creazione di una realtà diversa da quella reale, storica o attuale. Non si tratta di dettagli, ma di un virus insidioso che cambia il volto alle cose, rendendole irriconoscibili. E allora tutto diventa allo stesso modo indifferente, o perfino rassicurante: le bombe “intelligenti” sembrano quasi indolori, le guerre sembrano più giuste se le si chiama “operazioni di polizia internazionale”.
Meccanismo identico a quello del pregiudizio: «invisibile ma potente è il pregiudizio. Tiene lontano dalle persone, dalla verità, dai fatti. Crea la realtà che afferma. Le persone che si incontrano smettono di essere ciò che sono per diventare ciò in cui vengono rinchiusi: un sieropositivo, un arabo, un ladro, un gay. [...] Il pregiudizio si nutre di se stesso. Cresce quando trova conferme, rimane indifferente di fronte alle smentite. Vive oltre i fatti» (pp. 94-101).
Al pregiudizio ci si deve opporre perché è falso. Per lo stesso motivo, le parole non vanno “lavate”: ne va della coscienza stessa che abbiamo della realtà. La guerra e la pace dipendono dalla percezione che abbiamo delle cose: allenarci a distinguere il vero dal falso può metterci attivamente dalla parte della creazione, invece che della distruzione. «Ogni cambiamento nasce dalla coscienza. E anche la coscienza va allenata» (p. 10).

(«Il Caffè», 5 giugno 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano