sabato 18 luglio 2009

Sognare la tecnica

«Oggi un computer grande quanto un chicco di grano impiantato nel cervello può sostituire le funzioni neuronali danneggiate dal morbo di Parkinson. Tra il 2020 e il 2030, milioni, forse miliardi di robot simili a cellule del sangue abiteranno il nostro corpo e saranno in grado di scovare e combattere virus e infezioni. Non è una garanzia di immortalità, ma poco ci manca» (R. Kurzweil, 13 giugno 2009, “D di Repubblica”, p. 19). Dall’“affettuoso” cagnolino AIBO della Sony a Justin, il robot che prepara il caffè, dai cartoni animati giapponesi degli anni ’70 ai grigi automi delle catene di montaggio, l’umanità non ha mai smesso di sognare (e di provare a costruire) robot sempre più potenti, sempre più autonomi e, perché no, sempre più simili all’uomo. Dal Golem ebraico alla bambola di Cartesio, quella del robot è un’immagine trasversale alle culture più diverse e distanti. Immagine che trae ispirazione dal sogno; anzi, da due.
Il primo è un sogno di libertà. L’idea del robot nasce
già sotto il braccio dell’idea di libertà: Karel Čapek, scrittore ceco, introdusse il termine robot nel 1920 all’interno del suo dramma teatrale R.U.R. (Rossum’s Universal Robots), centrato sulla liberazione dell’umanità dalla schiavitù della fatica fisica. (Per la stesura di questo paragrafo e per le citazioni in esso contenute faccio riferimento al volume collettaneo G. Di Fratta (a cura di), Robot. Fenomenologia dei giganti di ferro giapponesi, ed. L’Aperia, studio a cavallo tra la fantascienza, i fumetti e la filosofia di un fenomeno – quello appunto dei robot – dai risvolti tecnologici, commerciali, culturali).
Purtroppo, contrariamente all’auspicio di Čapek, l’epilogo di questa avventura libertaria (le macchine che si assumono tutto il lavoro; gli uomini cui non resta che divertirsi e godersi la vita) è già all’orizzonte: solo ventidue anni dopo (1942) Asimov enuncerà le sue note “leggi della robotica”: gli stessi robot nati per alleggerire il lavoro degli uomini vengono deputati a tutelarne l’incolumità. Come si sa, ciò sfocerà nella soppressione di ogni libertà: i robot non permetteranno agli uomini di uscire di casa, per il loro stesso bene (per evitare i rischi del mondo esterno).
Ma come è potuta avvenire una simile inversione? Il nodo della questione si trova nel tentativo, infelice perché contraddittorio, di programmare la libertà: nel cercare di rendere automatico qualcosa che è di per sé intrinsecamente spontaneo, controllabile ciò che è sempre nuovo e imprevedibile, si rivela all’uomo l’ossimoro dell’espressione “libertà programmata”. Ne emerge che l’uomo è libero proprio in quanto – almeno in parte – impensabile. E non in quanto ignoto a se stesso, nel qual caso la sua libertà sarebbe solo un diverso nome per l’ignoranza di un essere già completamente destinato nel suo sviluppo, interamente prevedibile da parte di una mente superiore – l’illusione di Laplace; bensì in quanto radicalmente nuovo, in grado di creare l’inedito, qualcosa che fino a un istante prima non poteva essere pensato. Lo sforzo di controllare tutto conduce a mutilare, smorzare, spegnere tutto. Oltre una certa soglia, il sogno della macchina che libera l’uomo degenera nell’incubo di un uomo incapace di liberarsi dalla macchina (la cui icona cinematografica è il celebre Tetsuo). L’originaria artificialità della tecnologia (p. 22) corrode la radicalmente naturale libertà umana.

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Tuttavia il sogno robotico dell’uomo non si nutre solo di libertà, ma anche di eternità: «per molti versi l’evoluzione della robotica scandisce la storia stessa della civiltà umana. L’idea di “costruire” un essere vivente è qualcosa di radicato nei recessi dell’animo umano, nella misura in cui è profondo il desiderio di non soggiacere passivamente alle regole della natura, ma di modificarle a proprio vantaggio [...] Disporre dei misteri della vita per sentirsi Dio e sconfiggere la paura del buio e della morte» (G. Di Fratta (a cura di), Robot, cit., p. 21).
Su questo ricco e articolato rapporto tra robotica, civiltà, dominio della natura e desiderio di immortalità si impernia l’interessante studio di Carlo Sini dal titolo L’uomo, la macchina, l’automa, edito da Bollati Boringhieri. Lontano dal clangore della ferraglia meccanica, Sini spiega come – partendo dal concetto greco di autómatos come “ciò che si muove da sé”, si giunga alla costruzione di quel gigantesco automa che l’uomo chiama “cultura”.
Il sapere dell’uomo è infatti un grande automa, costruito sistematicamente e richiamabile “a comando”, in cui si cela tutto ciò che si trova oltre la vita effettiva: il ricordo di tutto ciò che è stato, a noi, ai nostri antenati, ai primitivi delle caverne (ciò che avremmo potuto vivere), così come l’esame delle nostre possibilità in continuo accrescimento (ciò che potremmo vivere). La consapevolezza che il sapere è altra cosa dalla vita (collocato com’è sempre nel passato o nel futuro), rende più ampio lo spazio della vita nostra, attuale, relegando sullo sfondo l’inoltrepassabile certezza di ogni sapere: quella dell’umana mortalità (p. 123). Il vero e proprio automa è dunque, prima di ogni robot, l’uomo stesso, macchina organica che con il lavoro del suo corpo e della sua mente circoscrive costantemente – tramite il proprio sapere – l’ambito della morte, per poter ampliare quello della vita.
Il sapere dell’automa culturale è per Sini un sapere della costitutiva mortalità di tutte le cose. Ma non ogni sapere è cosciente dei suoi limiti propri e invalicabili: così, esistono saperi che vedono nell’intelligenza artificiale, negli innesti cibernetici, nel “rimodellamento dell’uomo da parte della tecnologia” (per dirla con il Cronenberg di Crash) o nelle religioni dell’uomo ad-veniente (come il cosiddetto transumanesimo) delle strade che l’uomo può percorrere per andare oltre se stesso (cioè per affrancarsi da ogni dipendenza dalla condizione naturale, compresa la morte). Ambizione luciferina o innocente desiderio di progresso? Personalmente, diffido sempre della presunzione di chi vuol “fare il pugno più grande della mano” (Montaigne) e in particolare diffido di quel fatalismo scientista secondo il quale “la scienza, prima o poi, giungerà a risolvere tutti i nostri problemi”. Preferisco, con spirito più scientificamente critico, prendere atto che, come uomini, siamo parte della natura, che è una natura – senza eccezioni – di nascita e di morte (cosa sia natura, ovviamente, è tutto da discutere); chi vuole collocarsi “al di là” della natura – che sia l’invasato dell’onnipotenza tecnologica, o il citato scientista fatalista o il gaudente capitalista che teorizza la crescita infinita per il nostro mondo finito – non fa altro a mio avviso che segare l’albero sul quale siede.
In Software. I nuovi robot di Rudy Rucker, romanzo di fantascienza nel quale la coscienza di un individuo può essere incisa su nastro magnetico, al pari di qualunque software, per venir poi reinstallata all’interno di robot capaci di accoglierla, il protagonista – che vede la propria fine avvicinarsi – domanda preoccupato al compagno: “C’è una mia copia depositata da qualche parte?”. L’altro gli risponde: “Penso di sì. Ma che differenza fa?”. Dove tutto è controllato e duplicabile non vi è realmente più alcuna libertà, né alcuna novità, e niente ha più nessun senso. La stessa vita umana è indifferente; perfino la “sconfitta della morte” è una falsa vittoria. La vita è tale solo quando “ha più fantasia di noi”, per dirla con la felice espressione del regista francese Truffaut. Al di là, non c’è che il sogno.

("Sognare la tecnica. Su Robot di Gianluca Di Fratta (a cura di) e L'uomo, la macchina. l'automa di Carlo Sini", «Il Caffè», 17-24 luglio 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano