martedì 29 settembre 2009

AA.VV., Per una convivialità delle differenze, ed. l'Altrapagina, 2009

Oggi, al capolinea di una realtà esausta, stremata da 6.500 anni di guerre e di paci ugualmente effimere e dall’atteggiamento di una umanità dedita alla sopraffazione dell’altro e della natura, questo libro (Per una convivialità delle differenze, ed. «l’Altrapagina», 2009) prende atto che «nessuna cultura ce la fa da sola a fronteggiare le sfide del mondo attuale» (p. 6) e che abbiamo bisogno gli uni degli altri. Bisogna imparare dalla storia dell’umanità, che è storia di incontro, scontro e convivenza tra popoli. Anche se – ciò che è appunto il nodo della questione – tale storia ha sempre oscillato tra due estremi: quello “monista”, consistente nel sopprimere ogni differenza in nome del bisogno di unità e di omogeneità, e quello “dualista”, che invece di sopprimere le differenze lascia che queste si scontrino nell’arena della vita, nella convinzione che la superstite sia per ciò stesso “la migliore”.
Ma né l’una né l’altra alternativa permettono un dialogo fruttuoso (ed incruento); perché non si può andare incontro all’altro, non si può avere dialogo con lui (per utilizzare un termine di moda) se non gli si riconosce dapprima tutta la dignità che gli è propria. Da qui prende le mosse il discorso di Touadi, che spiega – a partire dalla sua esperienza di immigrato congolese in Italia – come la dignità sia stata negata al popolo dell’intero continente africano da tre secoli di schiavismo prima e da un secolo e mezzo di colonialismo poi. Né le cose sembrano prendere una piega diversa oggi, dove le recenti vicende di immigrazione non lasciano pensare al meglio. Se vero dialogo ci dev’essere – in buona fede e senza secondi fini – dev’essere alla pari: gli africani devono superare la loro “sindrome di Venerdì” (che si aspetta tutto dal suo maestro, Robinson Crusoe) così come, dal canto loro, gli Occidentali devono superare la propria “sindrome di Tarzan” (che, giunto come intruso nella foresta, vi si mette a dettare legge).
Per Ovadia è necessario un ulteriore passo: la giustizia sociale. Non vi può essere vero dialogo se non, come si diceva, tra pari: e non si può essere tra pari dove c’è discriminazione, sfruttamento, iniquità nella distribuzione della ricchezza. Ovadia, da uomo di teatro (e di cultura) qual è, parla dell’ingiustizia del mondo con una graziosa storiella attinta all’umorismo yiddish:
quando Mosè, furibondo, ruppe le prime Tavole della Legge, vennero giù le pietre preziose che costituivano le lettere e tutti si precipitarono a raccoglierle; i ricchi presero: ucciderai, ruberai, desidererai la donna d’altri, i poveri riuscirono a prendere solo: non... non... non... (p. 84).
Dio, deduce la saggezza ebraica, ama i poveri, ma aiuta i ricchi.
Proprio per questo, spiega Rahnema – che attinge a Spinoza come a Panikkar e a Ivan Illich – se vogliamo davvero un mondo più giusto, più solidale, più umano... in una parola, se vogliamo che il mondo cambi, non possiamo attendere questo cambiamento dall’alto di un potere che lo imponga: non è nel potere esteriore la soluzione, ma nella potenza interiore che ciascuno possiede ed è in grado di sviluppare.
La storia mostra a sufficienza che il monismo e il dualismo hanno egualmente fallito. Solo un pluralismo capace di accogliere tutto e tutti potrà essere all’altezza delle sfide globali del mondo contemporaneo.

(«il Recensore.com», 29 settembre 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano