lunedì 19 ottobre 2009

L. Amoroso, L'estetica della Bibbia, ed. ETS, 2008

Si può davvero studiare l’estetica della Bibbia? Ovvero: si può veramente effettuare un’indagine tutta profana (estetica) su ciò che almeno due religioni mondiali (il cristianesimo e l’ebraismo) hanno di più sacro (la Bibbia)? Per Leonardo Amoroso, autore di questo saggio snello ma ricco di spunti interessanti ed eruditi, è certamente possibile, a patto di rinunciare a quella concezione ottocentesca dell’estetica come dominio dell’‘arte bella’, fine a se stessa. Perché la Bibbia, pur non trattando direttamente, appunto, di ‘arte bella’, parla tuttavia con abbondanza di bellezza, di arte, di poesia. In primo luogo, in quanto opera letteraria, essa reca con sé, implicitamente, una poetica e un’estetica (anzi, come l’autore evidenzia, più d’una); in secondo luogo essa, seppur indirettamente, ha esercitato un’enorme influenza sull’arte occidentale, non solo sacra, giungendo a ispirare opere letterarie come il celeberrimo brano del Grande Inquisitore di Dostoevskij o addirittura film-scandalo come quelli di Scorsese e di Ciprì-Maresco.
Amoroso (che traduce direttamente dall’ebraico i brani citati, pur tenendo conto
delle traduzioni più accreditate) sottolinea come il tema della bellezza si trovi addirittura all’inizio della narrazione biblica (Gen 1,4-24): Dio, il Creatore, vide che ciò che aveva fatto era tov, parola ebraica che può essere tradotta sia con ‘ben fatto’ sia con ‘bello’ (e che infatti la Settanta, la Bibbia ebraica scritta in greco, traduce con kalòn). In questo brano Dio – continua Amoroso – viene presentato proprio come un artista, che si compiace dei vari elementi via via realizzati della sua opera:
più volte guarda quel che ha fatto, appunto come un artista che, collocandosi a una certa distanza per vederlo meglio, lo valuta positivamente (pp. 26-27).
Il tema ricorrente di questo studio è quello dell’aniconismo della Bibbia (il divieto prescritto di farsi delle immagini), che va di pari passo con l’importanza della parola e con il primato dell’udito rispetto alla vista nella cultura ebraica. L’autore si sofferma a darne vari esempi: secondo una certa interpretazione cabbalistica, la prima cosa creata da Dio non sarebbe la luce ma l’alfabeto; il termine ebraico davàr significa sia ‘parola’ sia ‘fatto’ (“a riprova della concezione ‘poietica’ del linguaggio propria della Bibbia ebraica”, p. 31); così come, si potrebbe aggiungere, Dio parla a Mosé sul Sinai, ma non si mostra (“Dio nessuno l’ha mai visto”: 1Gv 4,12). Il precetto aniconico, finalizzato ad estirpare l’idolatria di un popolo fin troppo lesto a costruirsi con le proprie mani un vitello d’oro dinanzi al quale inchinarsi, in ultima istanza non è un rifiuto della bellezza in quanto tale: piuttosto esso è la fonte del perseguimento di un’estetica che si esplica nelle forme della poesia e della musica piuttosto che nelle arti visive.
Nel capitolo dedicato a Salomone si sostiene che la morale di Qohelet è minimalista (p. 95); l’asserzione viene esemplificata dicendo che il “Non è bene che l’uomo sia solo” di Gen 2,18 è ripreso da Qohelet “nel senso che, se siamo in due, è più facile sollevarsi se si cade, e ci si può riscaldare se si ha freddo (Qo 4,9-12)” (pp. 95-96). L’argomento, che viene utilizzato solo come ‘ponte’ verso le considerazioni più propriamente estetiche sulla gioia e sul piacere ricorrenti nell’Ecclesiaste, sembra tuttavia parziale, in quanto la lettura dell’‘essere in due’ di Qohelet può anche avvenire in una prospettiva più vicina a quella che sarà propria del cristianesimo, ovvero: la solitudine è una delle radici del male, del solipsismo come del delirio di onnipotenza e dell’odio furioso; mentre ‘è bene che i fratelli stiano insieme’, perché “il Regno di Dio è ‘tra’ di voi”, cioè nella relazione tra gli uomini (come tematizzato ad esempio da filosofi cattolici quali Panikkar e Bellet). Il reciproco ‘sollevarsi se si cade’ può a sua volta avere il senso della ‘correzione fraterna’, del reciproco aiutarsi (in senso morale, che non esclude quello materiale, anzi) al fine della salvezza. Sembra dunque importante sottolineare come quella minimalista (che l’autore fa propria) sia ‘una’ lettura, ma non l’unica.
In generale, il libro offre nuove suggestioni ad ogni angolo: vi si discute dell’influenza dell’estetica greca della misura e della proporzione sull’estetica ebraica; dello sforzo strenuo di Dio (e dell’autore biblico) per contrastare la più sottile e più pericolosa forma di idolatria, quella della stessa parola; della “prova ‘estetica’ dell’esistenza di Dio” (p. 85); dell’estetica della semplicità contrapposta a quella del fasto e dell’opulenza (a proposito della quale Amoroso conclude affermando che l’umiltà cristiana non è solo una virtù etica, ma anche per così dire ‘estetica’); dell’intreccio fra la bellezza e la sapienza e della sapienza come stile di vita, come arte del vivere bene (ars vivendi). Tutte cose cui l’autore si limita ad accennare, certo; strade che indica, senza percorrerle fino alla fine (ciò che richiederebbe “un lavoro di molti anni da parte di un’équipe di studiosi dotati di competenze differenziate”, p. 9; dei limiti dell’opera Amoroso è ben consapevole e non esita a metterli in luce fin dalla Prefazione). Insomma, se è vero che la bellezza è identica alla sapienza (p. 83) e se è vero che Dio ha fatto ogni cosa con sapienza... allora, dallo studio dell’estetica biblica abbiamo davvero ancora molto da imparare.

(«ReF», n° 43, ottobre 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano