sabato 17 ottobre 2009

La guerra è guerra/1

Alla notizia dei sei militari italiani morti a Kabul mi sono addolorato: come coetaneo, con i miei trentottanni ancora vitali; come padre, pensando ai genitori di quei giovani. Per il rispetto, e per il dolore, si rimane senza parole. Da cui il minuto di silenzio, il tamburo mediatico di tre giorni, funerali di Stato e così via. Tutto questo - diciamo - si capisce. Quello che non si capisce è la nota della Curia di Napoli nella quale si dichiara che quei militari sono “veri martiri della pace”, che ad essi “è stata tolta la vita solo perché operavano in nome della solidarietà umana e della giustizia, contro cui incredibilmente e follemente si battono le forze eversive locali che vogliono impedire a quel Paese di raggiungere l’ordine sociale e di affermare la democrazia”.
Francamente, non capisco. Non credo che siano stati uccisi perché operavano in nome della solidarietà e della giustizia: sono stati uccisi perché sono forza di occupazione militare armata in territorio straniero. I loro assassini non hanno agito perché vogliono affermare l’ingiustizia e la non-solidarietà: hanno agito uccidendoli perché vogliono che i militari della coalizione occupante se ne vadano a casa loro.
Non capisco perché chiamarli “martiri”. I martiri sono coloro che sono disposti a perdere la vita pur di testimoniare la loro fede; è un termine infelice da utilizzare in questo contesto, perché si attaglia più al kamikaze che alle sue vittime. Il martire è sempre povero, piccolo e solo contro un potere oppressore armato, organizzato e determinato a schiacciarlo: storicamente non abbiamo controesempi che ci autorizzino a utilizzare questa parola in un senso così tanto contrario alla percezione comune. E, se i media non ci ingannano anche su questo punto, quelli armati fino ai denti, con tanto di robot d’assalto e bombe intelligenti, be’, siamo noi.
Non capisco perché parlare di forze eversive che incredibilmente e follemente ci oppongono resistenza. Le stesse cose le dicevano dei nostri ventenni e trentenni partigiani i nazifascisti occupanti nel ‘44-45: per loro i partigiani erano così incredibilmente irrazionali che, per dissuaderli, si minacciava di fucilare dieci civili per ogni soldato nazifascista ucciso. Con ogni probabilità, al rientro in Germania della salma di un ragazzo nazista ucciso in Italia, si parlava di “eroe”, di “vittima”, di “caduto per la giustizia e la libertà”. La madre piangeva il figlio come facciamo noi oggi. È tutto uguale: gli occupanti sono occupanti, gli indigeni si ribellano - come possono. Anche i nostri partigiani erano “irregolari”, non avevano divise riconoscibili, utilizzavano metodi di guerriglia che gli avversari definivano criminali. Ma la storia è sempre la stessa: misconoscerlo significa non capire niente del passato, e nemmeno del presente.
Quei ragazzi sono finiti in maniera tragica, non v’è dubbio. Ma non meno di tutti quelli che muoiono nell’esercizio delle loro funzioni, come i vigili del fuoco durante gli incendi, i poliziotti e i carabinieri negli scontri a fuoco, gli operai di cantiere nella costruzione degli edifici, i tecnici dei laboratori di radiologia all’opera. Perché quei giovani erano stipendiati, volontari e ben consapevoli. Ogni mestiere ha i suoi incerti, ogni mestiere ha i suoi ideali. Di fronte a questa tragedia domandiamoci se abbiamo fatto di tutto per evitare che tanti giovani si ritrovino a fare il soldato per mancanza di alternative lavorative, e che vengano spinti a partire dal bisogno di tirar su un po’ di soldi extra in vista del matrimonio. In guerra, purtroppo, si muore.

(«Il Caffè», 16 ottobre 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano