venerdì 20 novembre 2009

M. Houellebecq, La possibilità di un'isola, ed. Bompiani, 2007

In un futuro distante da noi diverse generazioni, il mondo è popolato da cloni umani che passano la vita ad annoiarsi, scorrendo le scene di vita dei loro predecessori e appuntandovi i propri commenti. Una vita da spettatori, priva di indignazione e di speranza, con l’aspettativa di un futuro di eterna ma sterile riproduzione. Soprattutto, una vita priva di sorriso: perché la prima delle capacità umane che i cloni smarriscono lungo il percorso di autoreplicazione, è proprio quella di sorridere.
I nostri contemporanei, dal canto loro (l’ambientazione del romanzo altalena tra i due periodi) non sembrano passarsela meglio: sono cattivi, isolati, monchi di qualunque solidarietà, incapaci di gioire all’idea di avere un bambino (anzi, apertamente nauseati da quel «disgusto legittimo che coglie ogni uomo di normale costituzione alla vista di un “pargolo”», p. 56), infastiditi perfino dalla presenza di un corpo non abbastanza tonico da poter essere “consumato” sessualmente (anche se quel corpo, fino a pochi giorni prima, lo si chiamava “mia moglie”).
Il libro è dunque sulla clonazione, e sui rischi che potremmo correre in futuro battendo questa strada con lo sguardo puntato unicamente sulla nostra volontà di potenza; ma è un libro che, a ben vedere, parla sostanzialmente del presente, di quella “clonazione” umana che già oggi si verifica ad opera degli stili di vita e dei mezzi di comunicazione di massa. Come dice Isabelle, moglie del protagonista Daniel:
conosci il giornale in cui lavoro: ciò che cerchiamo di creare è un’umanità artificiosa, frivola, che non sarà mai più toccata dalle cose serie né dall’umorismo, che vivrà fino alla morte in una ricerca disperata del “fun” e del sesso; una generazione di eterni “kids”. Ovviamente, ci riusciremo (p. 32).
Michel Houellebecq, autore à la page (categoria alla quale ingiustificatamente si perdonano degli eccessi, come certe scene di sesso gratuite e sovraccariche), consegna un romanzo intriso di cattiveria, cinismo, vuoto di senso, in cui l’umanità (come nel precedente Le particelle elementari) è rappresentata come un branco in continua lotta per la sopravvivenza. Nel leggere La possibilità di un’isola, tuttavia, si ha la sensazione che, andando avanti con le pagine, la menzogna cresca sempre più fino a farsi insostenibile: chissà se era questo l’intento dell’autore (e c’è motivo di dubitarne). Ad ogni modo, si finisce con lo scoprire che questa visione del mondo e dell’uomo è assurda, insostenibile e destinata a crollare sotto il suo stesso peso. Il romanzo rivela così la sua tesi ultima: “uomo” si dice quando si è almeno in due. A questo mondo non ci sono possibilità per chi vuol essere un’isola.

(«il Recensore.com», 20 novembre 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano