lunedì 16 novembre 2009

Povertà

Dove c’è povertà non c’è pace: questo in sintesi è il messaggio di Gustavo Gutierrez, sacerdote cattolico peruviano e teorico fondatore della teologia della liberazione, nonché autore di Povertà (ed. EMI, 2009). Rassegnarsi all’esistenza della povertà oggi è «un rifiuto del dono della pace del Signore, e ancor più un rifiuto al Signore stesso» (Paolo VI).
È vero che non tutte le povertà sono uguali. C’è la povertà volontaria dell’asceta, per il quale l’essenzialita è la strada privilegiata verso la divinità, il modo migliore per liberarsi dell’inutile e far così spazio a ciò che è veramente importante. L’asceta contemporaneo esiste anche nella versione laica, non religiosa, nel fautore della sobrietà alla Latouche o dell’austerità alla Berlinguer. C’è anche chi povero lo nasce, senza sceglierlo, ma non si sente tale perché viene al mondo in una comunità in cui nulla di indispensabile gli manca e in cui gli altri sono nelle sue stesse condizioni.

«La semplice presenza dei poveri è già un appello etico. Non basta cambiare i rapporti di potere; occorre pensare a una nuova società».
G. GUTIÉRREZ, Povertà, ed. EMI, 2009

Poi c’è la povertà teorica degli economisti delle “banche mondiali” e dei “fondi monetari internazionali”: per essi la povertà è un nemico da combattere in quanto frena lo sviluppo e la crescita (perché i poveri pagano poche tasse e consumano welfare).
Poi c’è la povertà dei poveri, quella non voluta e subita ad opera e a vantaggio dei colonialisti e degli imperialisti d’ogni epoca e nome. Quelli che erano poveri, sì, ma avevano il loro pezzo di terra da coltivare e il loro pozzo cui attingere; ora la loro terra è stata venduta alle multinazionali della monocoltura (delle banane, del tabacco, del caffè) e l’acqua è stata privatizzata in base ad accordi tra il governo e gli enti economici transnazionali. La loro non è povertà, ma miseria; essi non sono poveri, ma impoveriti; vivevano meglio quando non avevano né denaro né bagno che adesso, costretti a vivere con meno di due dollari al giorno. La categoria fondamentale della loro esistenza è la privazione: «un quarto degli abitanti del mondo non hanno una parte sufficiente dei beni del pianeta per dare ai loro figli il cibo, la casa, l’assistenza medica e un’istruzione minima di cui hanno bisogno per vivere una vita umana. La povertà disumanizza» (dalla seconda parte del libro, a cura di Marco Dal Corso). Perché questo è l’aspetto peggiore di tutto: che la povertà rende meno umani. Disumanizza quelli che la subiscono, costretti a veder morire i propri bambini per fame e per malattie curabili, disumanizza quelli che la producono, ciechi di fronte alla grandezza della vita umana perché accecati dal cadavere del denaro. Il messaggio del libro, in ultima istanza, è etico o, se si preferisce, religioso: l’appello ad interessarsi dei poveri e della povertà non può essere eluso, perché ne va dell’umanità di tutti. Questo vale sia al livello dei singoli sia al livello istituzionale delle organizzazioni internazionali, soprattutto religiose: «la presenza dei poveri aiuta le religioni a dire e dare il loro contributo profetico, a dire e mantenere l’impegno verso Dio, la cui gloria, come recita un famoso adagio patristico, è che l’uomo viva». Nei secoli dei secoli.

(«Il Caffè», 13 novembre 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano