martedì 15 dicembre 2009

Religiosità pagana. Intervista a Claudio Fava, 4 dicembre 2009

Claudio Fava, deputato europeo e coordinatore nazionale di Sinistra Democratica è oggi tra i promotori della lista e del progetto politico di Sinistra e Libertà. Giornalista professionista dal 1982, ha collaborato con il «Corriere della sera», «L’Espresso», «L’Europeo» e la RAI. Dal 1984, dopo l’uccisione del padre, ha assunto la direzione de «I Siciliani», laboratorio di una nuova cultura della legalità e dell’impegno antimafioso. È stato eletto per il 2009 dal settimanale inglese «European Voice» (del gruppo dell’Economist) “eurodeputato dell’anno”. Sito personale: http://www.claudiofava.it/.

Sappiamo di mafiosi che ostentano la loro religiosità e spesso invocano la benedizione di Dio sulle loro imprese criminali. Come si spiega a suo avviso questo fenomeno?
Con una interpretazione molto “di comodo” della religiosità, della fede. Con una idea molto strumentale del rapporto con Dio, come dire: se esiste, esiste soltanto in funzione dei propri bisogni, delle proprie necessità terrene. Se esiste, Dio deve limitarsi ad assolvere i peccatori, ad assistere benevolo a battesimi e cresime e a chiudere un occhio sulla bassa macelleria di cui i mafiosi si occupano. È un’idea rituale e feticista della religione che naturalmente – tranne pochi casi – serve soltanto a darsi una giustificazione, ma certo non è utile a costruire un rapporto di fede tra questi signori e ciò che si trova “oltre noi”. Penso però che anche la Chiesa abbia delle responsabilità in questo.

In che senso?
La Chiesa in passato ha tollerato, ha chiuso un occhio, spesso ha anche assunto atteggiamenti di “consociativismo culturale”: ricordo ad esempio che il cardinal Ruffini era tra coloro che sostenevano, a Palermo, che la Chiesa non doveva occuparsi di mafia, ma solo di salvare le anime perdute. Altri prelati palermitani, in tempi più recenti, hanno parlato della mafia negli stessi termini. Le prime parole di condanna sono giunte da Giovanni Paolo II, e solo dopo dieci dall’inizio del suo apostolato. C’è un ritardo culturale, direi anche imputabile alla prudenza della Chiesa nei confronti della mafia. È pur vero, d’altro canto, che esiste un movimento ecclesiale di base che dà una forte testimonianza e che ha avuto i suoi morti – pensiamo a don Giuseppe Diana o a don Pino Puglisi.

Ma questa pretesa religiosità della mafia è soltanto ipocrisia studiata ad arte, o c’è un fondo di sincerità?
Direi che c’è un fondo di sincerità unitamente a una base di forte strumentalità, come dicevo. Sincerità tuttavia legata anche a un modo un po’ pagano di vivere il rapporto con Dio e con la religione tipico soprattutto del Mezzogiorno di questo Paese. Penso ad esempio al miracolo della liquefazione del sangue di san Gennaro a Napoli: riscontriamo elementi di paganesimo nel nostro modo rituale e consequenziale di “guadagnarci” la benevolenza e la grazia di Dio. La lotta alla mafia ha bisogno di una nuova cultura, civile, morale e religiosa, che metta al centro l’impegno personale e collettivo di tutta la società, nessuno escluso.

Partendo da cosa?
Comincerei innanzitutto a parlare in termini di “noi” piuttosto che di “io”, per far capire che la lotta alla mafia non vive né di isolati eroismi né di atti di compiaciuto protagonismo, bensì delle capacità di un’azione congiunta e diffusa – come negli anni si è visto in più occasioni, anche con risultati importanti. La lotta alla mafia ha bisogno di schierare sulla stessa linea di impegno e di consapevolezza una fetta consistente della nostra società. Va da sé che qualcuno avrà più incarichi o responsabilità di altri; tuttavia, lasciarlo solo equivarrebbe a consegnarlo direttamente nelle mani di Cosa nostra.

Quindi la lotta per la legalità non riguarda solo lo Stato come istituzione?
C’è bisogno dell’apporto di tutta la società e dunque tra gli altri anche della Chiesa, in quanto appartiene alla società. C’è bisogno del contributo di tutti, sul piano culturale come su quello comunitario; pretendere che sia soltanto lo Stato a farsi carico dell’intera impresa, a prescindere dalle donne e dagli uomini che formano il corpo sociale è una pretesa eccessiva. Direi anzi una fuga più che una pretesa: c’è bisogno di una nazione capace di assumere su di sé il compito di questa lotta di libertà e di democrazia. Nessuno Stato da solo può reggere l’urto di un simile scontro.

(«l'Altrapagina», n° 11, dicembre 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano