lunedì 14 dicembre 2009

Italians Do It Better

«L’unica impresa che rende oggi è il crimine» dice Giuliano Gemma a Bud Spencer in Anche gli angeli mangiano fagioli, del 1973. Potremmo forse dire la stessa cosa anche ai nostri giorni, sostituendo alla parola “crimine” la parola “irresponsabilità”: l’unica impresa che fa grandi profitti oggi è quella che – nell’alveo delle leggi vigenti – commette ecocrimini (quando non ecofollie, per dirla con Milena Gabanelli) e passa sulla vita di interi popoli e nazioni. Quando il proprio interesse (personale o corporativo) viene prima o addirittura contro il bene di tutti, non ci sono leggi, etiche o prassi che tengano. E dunque, per fare un esempio fra tutti, alle aziende farmaceutiche converrà (anche al lordo dell’eventuale multa in cui dovessero incorrere) sempre continuare a sversare i loro rifiuti nel mare della Somalia al costo di 3 dollari alla tonnellata, invece di smaltirli secondo la legge europea per un costo di 1.000 dollari. Si chiama “razionalità economica”.

Quando il costo della campagna per le elezioni presidenziali in USA supera i 500 milioni di dollari, com’è avvenuto nel 2004, il finanziamento dei candidati per mano delle grandi imprese diventa indispensabile. Corrispettivamente diventa naturale la disponibilità che gli eletti, a qualsiasi parte politica appartengano, mostrano di fronte alle società finanziatrici allorché queste pretendono da loro interventi legislativi volti a ridurre il rischio che si chieda alle imprese di rispondere delle loro attività, in patria o all’estero.

Si definisce irresponsabile un’impresa che al di là degli elementari obblighi di legge suppone di non dover rispondere ad alcuna autorità pubblica e privata, né all’opinione pubblica, in merito alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle sue attività.
Così Luciano Gallino, professore emerito di sociologia all’Università di Torino, apre il suo bel libro sull’impresa capitalistica, appena riedito da Einaudi. Più precisamente, il professore si scaglia contro un certo tipo di capitalismo, quello che ha assegnato un ruolo talmente preponderante alla finanza da trascurare ogni legame di questa con la realtà della produzione: se un’impresa A – che vale in Borsa 10 miliardi di euro ma ha un fatturato di soli 5 miliardi e 3.000 dipendenti – la si considera preferibile a un’impresa B – che vale 6 miliardi benché fatturi 60 miliardi e conti 50.000 dipendenti – perché si ritiene che la prima generi un valore più alto per gli azionisti; se si considera il 15% come il rendimento minimo del capitale che gli investitori istituzionali pretendono dalle imprese di cui detengono azioni in portafoglio (percentuale dissennata e assurda, all’interno di economie che crescono al più del 3-4% all’anno, ma per lunghi periodi anche meno del 2 – è il caso dei paesi UE, p. 118); se si è disposti a licenziare (anche contro le esigenze della produzione) pur di accrescere il valore in Borsa dell’azienda (pp. 155-158); allora si stanno semplicemente ponendo le basi per la prossima crisi finanziaria del terzo millennio.
Ma le grandi imprese hanno tanti altri modi di essere irresponsabili, ad esempio fiscalmente:
la condotta fiscalmente iresponsabile di molte grandi imprese genera gravi costi sociali. Modifica in senso regressivo l’assetto del sistema di tassazione, trasferendo la maggior parte dell’onere impositivo dalle imprese alle famiglie e ai redditi da lavoro. In USA, per esempio, nel 1953 le famiglie pagavano il 59% delle imposte federali e le corporation il 41%. Negli anni 2000 la quota pagata dalle prime era salita all’80%. Una tendenza analoga è stata osservata nel Regno Unito. Nei paesi sviluppati le decine di miliardi di euro all’anno cui ammontano le imposte non versate in ciascun paese vengono sottratti alla scuola pubblica, alla sanità, al sistema previdenziale.
Ciò accade soprattutto quando esse hanno la possibilità di influenzare direttamente le leggi degli stati a proprio vantaggio. Non è difficile da credere: come Gallino sottolinea,
quando il costo della campagna per le elezioni presidenziali in USA supera i 500 milioni di dollari, com’è avvenuto nel 2004, il finanziamento dei candidati per mano delle grandi imprese diventa indispensabile. Corrispettivamente diventa naturale la disponibilità che gli eletti, a qualsiasi parte politica appartengano, mostrano di fronte alle società finanziatrici allorché queste pretendono da loro interventi legislativi volti a ridurre il rischio che si chieda alle imprese di rispondere delle loro attività, in patria o all’estero.
Sembra di osservare una classe di individui all’opera all’insegna del celebre motto “tanto peggio, tanto meglio” (cfr. “Essi vivono”, «Il Caffè», 6 novembre 2009). Ma non è vero che non c’è niente da fare; si può far molto, e si può far meglio. E quelli che sanno farlo meglio sono proprio gli italiani.

* * *

Per Luigino Bruni, docente di Economia politica all’Università di Milano Bicocca,
la “vecchia” tradizione economica europea, in particolare quella italiana [...] è forse un’economia di mercato più sostenibile e a misura di persona di un certo tipo di capitalismo di tradizione anglosassone fondato sull’individuo, sugli interessi e sulla mutua indifferenza.
Il professore si rifà esplicitamente alla tradizione economica del Sette-Ottocento napoletano (Genovesi, Filangieri, Dragonetti) e milanese (Verri, Beccaria, Cattaneo) e alla teoria economica che prende il nome di “economia civile”.
Secondo Bruni, l’economia capitalistica classica di stampo anglosassone ha avuto successo in un periodo in cui l’esigenza primaria era quella di liberare l’individuo dai rapporti asimmetrici e obbligatori del mondo feudale; i rapporti che nel mondo feudale erano verticali, divengono qui orizzontali – cioè tra pari, liberi di scegliersi e di rapportarsi tra loro all’interno del libero mercato:
il mercato, per Smith e per la tradizione che dopo di lui diverrà ufficiale in economia, è dunque un mezzo per costruire relazioni autenticamente sociali. [...] Se il mendicante si reca dal macellaio a chiedere l’elemosina, non potrà mai avere con lui un rapporto di amicizia al di fuori del mercato. Se, invece, l’ex-mendicante entra un giorno nella bottega del macellaio o in quella del birraio per acquistare legittimamente le loro merci, la sera quell’ex-mendicante potrà incontrarsi al pub con i suoi fornitori su un piano di maggiroe dignità, e magari può essere loro amico.
Di conseguenza, le relazioni all’interno del mercato devono essere assolutamente impersonali, libere da ogni forma di benevolenza (e dalla che essa può implicare). Da qui l’accento sull’interesse esclusivamente individuale, che crea la frattura tra bene privato e bene pubblico (frattura che, a sua volta, induce l’esigenza della filantropia come istituzione da affiancare al mercato).
Per Bruni, tuttavia, le cose sono oggi sono diverse da allora: ai tempi di Smith la “risorsa scarsa” era appunto l’individuo, mentre oggi è
la relazione interumana genuina, non puramente strumentale e contrattuale, che possiamo chiamare anche fraternità.
Ecco allora che l’economia civile italiana, storicamente trascurata, può venire utilmente ripresa oggi, in questi tempi di «nostalgia del “tocco umano”»; essa, “scienza della pubblica felicità”, legata al bene comune, basata sulla reciprocità e sulla “fiducia pubblica” in particolare (concetto simile a ciò che i moderni teorici sociali chiamano “social capital”, cioè il tessuto di fiducia e di virtù civili che fa sì che lo sviluppo umano ed economico possa partire e mantenersi nel tempo, p. 78), può essere veramente in grado di uscire dal tunnel della crescita cieca (o, ciò che è lo stesso, dell’aumento indiscriminato del PIL) per entrare in una fase di “buon governo”, finalizzato all’“incivilimento del popolo” e in cui “è magari meglio crescere meno, ma tutti insieme” (p. 84).
Il motore di questa forma di economia civile è “l’impresa civile”, così tratteggiata: «tutte le imprese (al di là del loro settore di attività e della loro forma giuridica) sono civili se e nella misura in cui realizzano progetti (industriali, commerciali, turistici, artistici, culturali...) e cercano di creare valore aggiunto restando sul mercato in maniera efficiente. Se non fanno questo potremmo semplicemente chiamarle... incivili» (p. 128). Invece che di RSI (o responsabilità sociale d’impresa, basata sulla massimizzazione del profitto nell’ambito dei vincoli imposti dagli standard sociali ed etici minimi – cfr. “Etica d’impresa”, «Il Caffè») si parlerà di RCI (responsabilità civile d’impresa):
l’obiettivo dell’impresa civile è realizzare e sviluppare nel tempo un progetto. [...] Un vincolo da rispettare sono le condizioni di economicità e/o di efficienza. Il profitto è un segnale che il progetto funziona, e l’efficienza è vista come un comportamento etico perché in un mondo dove le risorse sono scarse l’efficienza ha anche un contenuto morale.
(Così a p. 125; en passant, si noti che il fatto che il profitto sia minimo non è una “degenerazione” dell’economia civile: anche l’economia neoclassica prevede che in regime di concorrenza perfetta il profitto tenda a zero; al contrario, sono i profitti alti a costituire una evidente degenerazione della teoria).
Tutti gli eventi di cui veniamo a conoscenza negli ultimi tempi ci portano a una conclusione: che la nostra cultura della concorrenza, della competizione, insomma dello scontro tra vincitori e vinti (che poi sono sempre gli stessi) non ha futuro. La concorrenza deve e può trovare l’accordo con la cooperazione; gli interessi delle aziende possono contemperarsi con quelli della società, invece di contrapporsi; c’è davvero la possibilità di avere ricchezza a sufficienza per le esigenze (non certo per l’avidità) di tutti. L’unica impresa che oggi val la pena intraprendere è quella che costruisce la pace.

(«Il Caffè», 11-18 dicembre 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano