martedì 26 gennaio 2010

Mondo avvelenato. Intervista a Riccardo De Lauretis, 5 gennaio 2010

Riccardo De Lauretis, Responsabile della realizzazione dell’inventario nazionale delle emissioni in atmosfera (inclusi i gas serra) e del settore “Emissioni in atmosfera” dell’ISPRA. Premio Nobel per la pace 2007 (premio assegnato ad Al Gore e all’IPCC, organismo scientifico della Convenzione sui Cambiamenti Climatici, il quale ha riconosciuto il Nobel a tutti i tecnici alle persone che hanno collaborato alla produzione dei documenti scientifici dello stesso). Dal 1999 partecipa, come membro della delegazione italiana, ai negoziati della Convenzione sui Cambiamenti Climatici, in particolare per le tematiche inerenti alle metodologie di stima e di reporting delle emissioni e le attività di verifica e revisione delle stime; in tale veste ha partecipato al summit di Copenaghen dello scorso dicembre.

Quali erano gli obiettivi del summit di Copenaghen? Cosa è stato raggiunto? Cosa è stato mancato?
Il principale obiettivo per il momento mancato è un accordo legalmente vincolante con fissati e determinati obiettivi di riduzione delle emissioni sia a breve sia a lungo periodo, complessivi e per i singoli paesi, inclusi i paesi cosidetti emergenti (tra cui Cina, Brasile, India) che contribuiscono in misura rilevante al totale delle emissioni globali di gas serra e alla loro crescita. È stato comunque raggiunto un accordo che impegna tutti i paesi, inclusi USA e Cina, a riduzioni delle emissioni di gas serra e che rimanda alla fine del 2010 la definizione di impegni più vincolanti. In tale accordo sono stati definiti alcuni degli elementi negoziali e delle politiche necessarie per la riduzione delle emissioni entro il 2020 ed entro il 2050.

Perché si è parlato di esito deludente e al di sotto delle aspettative?
Le note positive presenti sul testo sono di difficile lettura e comprensione a chi non segue il negoziato. Al di là delle speranze, i risultati del vertice erano ampiamente previsti, visto che gran parte dell’esito dipendeva dalla disponibilità di USA e Cina (responsabili da sole del 50% delle emissioni complessive di gas serra) a sottoporsi ad un controllo internazionale delle loro emissioni, e questo vuol dire necessariamente un controllo delle loro economie di sviluppo. Gli USA hanno comunque intrapreso un percorso, con l’Environmental Climate Bill che sarà discusso al senato USA nei prossimi mesi, che potrebbe portare ad impegni sostanziali per la fine del 2010. I meccanismi “negoziati” e “accordati” anche a Copenhagen consentirebbero poi la partecipazione anche della Cina e delle grandi economie emerganti.

Si può dire che nessun altro tema riguardi direttamente tutte le nazioni del mondo come quello dell’emergenza climatica. Come è possibile che non si raggiungano accordi di importanza significativa?
Per questo tipo di decisioni è richiesto il voto favorevole di tutti i paesi membri e non la “semplice” maggioranza del 75% come le altre organizzazioni dell’ONU. Questo vuol dire che l’accordo deve avere il consenso di paesi con interessi molto differenti, come i paesi produttori di petrolio ( che perdono attività economica), i paesi in via di sviluppo (che non vogliono limitare o pagare di più la loro crescita economica) o i paesi sviluppati che non vogliono rinunciare parzialmente a stili di vita considerati benestanti ma spesso non sostenibili (come muoversi solo con la propria macchina o avere la casa riscaldata d’inverno e raffreddata d’estate senza limiti di temperatura).

Esiste unanimità internazionale intorno a certi dati e alle conclusioni che se ne possono trarre?
La comunità scientifica internazionale rappresentata dall’IPCC, dove gli scienziati tra l’altro sono nominati dai governi, è unanimemente d’accordo sul fatto che siamo in presenza di una accelerazione del fenomeno dei cambiamenti climatici non comparabile con quanto già avvenuto nel passato, che tale fenomeno comporterà (e già ne vediamo i primi effetti) nei prossimi decenni un aumento dei fenomeni climatici estremi, l’innalzamento del livello del mare (e alcune isole come le Maldive già stanno perdendo territorio) e altri potenziali danni riportati nel IV Rapporto dell’IPCC, e che l’uomo difficilmente potrà contenere tali danni e adattarsi al nuovo clima in tempi così brevi. Gli scienziati sono concordi anche nel ritenere che le emissioni antropogeniche di gas serra sono con probabilità superiore al 95% responsabili di tale incremento di velocità dei cambiamenti climatici. Trattandosi comunque di modelli di previsione di fenomeni complessi esiste sempre un margine di incertezza e l’acquisizione di maggiori dati e gli studi in essere cercano proprio di ridurre tale incertezza al minimo per dare ai decisori politici assicurazione che le risorse da destinare alle attività di mitigazione e di adattamento siano adeguate ai rischi e potenziali danni dovuti ai cambiamenti climatici.

Quali sono i dati che più di altri ci mostrano la colpa dell’uomo nella variazione del clima?
L’incremento dei livelli di concentrazione della CO2 in atmosfera è molto correlato alla crescita dell’utilizzo di combustibile fossile (e quindi alla perdita di carbonio e alle emissioni in atmosfera di gas serra) intervenuta a partire dalla rivoluzione industriale e aumentata in maniera esponenziale negli ultimi ‘60 anni successivamente alla seconda guerra mondiale.

Quali sono i dati che ci fanno più preoccupare?
L’intensificarsi di eventi estremi (cicloni, instabilità climatica, grande caldo e grande freddo) e lo scioglimento rapido dei ghiacciai del mondo possono avere conseguenze al momento non immaginabili come esodi di milioni di persone o guerre per l’acqua. Si prevede ad esempio che Il Kilimagiaro perderà quasi completamente i propri ghiacciai nel giro di qualche decennio e questo vorrà dire la perdità di riserve di acqua per il continente africano.

Esistono dati effettivamente “inconfutabili” o si tratta sempre e comunque di opinioni, ancorché erudite e autorevoli?
Le previsioni indicate dagli scienziati sono frutto di modelli scientifici tramite i quali si cerca di simulare la realtà complessa in cui viviamo. I risultati sono sempre pubblicati su riviste scientifiche e sottoposte quindi ad una revisione indipendente. Sono quindi opinioni/ipotesi che si basano su analisi scientifiche dei dati in nostro possesso e su confronti con situazioni del passato “individuate” ad esempio attraverso i carotaggi dei ghiacciai dell’Antartide che hanno consentito di studiare la qualità dell’aria intrappolata nei ghiacci migliaia di anni fa. Restano sempre quei margini di incertezza legati alla non completa conoscenza e difficoltà di riprodurre fedelmente i sistemi complessi in cui viviamo. Per ridurre tale incertezza l’IPCC ha iniziato a definire il programma di lavori e studi e ricerche che condurranno alla pubblicazione del quinto rapporto previsto per il 2014.

Bjorn Lomborg, “l’ambientalista scettico” che scrive anche sul «Sole 24 ore», sostiene che molte previsioni degli ambientalisti siano esagerate e che dovremmo essere molto meno preoccupati di quanto siamo oggi. Cosa ne pensa?
Il mio lavoro è concentrato intorno alla preparazione degli inventari delle emissioni e alla produzione di dati (il più possibile accurati). Non sono esperto di modelli e non conosco nel dettaglio quali sono gli aspetti più critici degli stessi, a parte la disponibilità di lunghe serie storiche di dati per tutte le aree geografiche mondiali. In ogni caso il frutto dei modelli realizzati sono possibili scenari futuri ciascuno con intervallo di valori minimi e massimi. Quello che si può osservare nel IV rapporto IPCC è che comunque anche negli scenari con conseguenze minime, i danni previsti sarebbero elevatissimi e non confrontabili con i costi delle misure di riduzione dei gas serra. Inoltre bisogna segnalare che le politiche di riduzione dei gas serra comportano quasi sempre riduzione delle emissioni di sostanze inquinanti con miglioramento della qualità dell’aria (ad esempio nelle aree urbane) e quindi benefici in termini di riduzione dell’inquinamento e dei danni alla salute, ai monumenti e alla natura.

Cosa potrà accadere se continuiamo a far finta di nulla e lasciamo che le cose procedano così come sono ora?
Le conseguenze prevedibili a lungo termine sono quelle elencate precedentemente; le più gravi e imprevedibili nei loro effetti, a mio avviso, sono quelli legati allo spostamento di milioni di persone che non possono adattarsi a vivere dove si trovano attualmente per problemi ad esempio di inondazione o di desertificazione del territorio, e quelli legati alla perdita delle risorse mondiali di acqua potabile, che comporterà sicuramente lo sviluppo di guerre e distruzioni. Con queste motivazioni è stato assegnato agli scienziati dell’IPCC nel 2007 il Premio Nobel per la pace, al fine di sviluppare la conoscenza del fenomeno dei cambiamenti climatici in modo da poter attuare in tempo utile quelle politiche internazionali economiche e di sviluppo che consentano di ridurre al minimo i danni previsti ed evitare i potenziali disastri.

Qualcuno sostiene che forse abbiamo già superato certi “punti di non ritorno”. Cosa si può dire al riguardo da un punto di vista strettamente numerico (quantitativo)?
Francamente non sono in grado di rispondere a questa domanda ma credo che si faccia riferimento agli scenari più pessimistici. Speriamo che il prossimo rapporto IPCC nel 2014 possa fornire risposte più certe e ridurre l’intervallo previsto dagli scenari attuali.

(«l'Altrapagina», gennaio 2010)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano