venerdì 26 febbraio 2010

R. Panikkar, Il silenzio del Buddha (ed. A. Mondadori); Spiritualità indù (ed. Rizzoli), 2006

Nel 2006 sono stati editi due nuovi libri di Panikkar specificamente dedicati al dialogo interreligioso: Il silenzio del Buddha (nella collezione Oscar di Arnoldo Mondadori) e Il dharma dell’induismo (nella collana “Alta fedeltà” della Biblioteca Universale Rizzoli), entrambi tradotti dallo spagnolo da Milena Carrara Pavan.
Si tratta di due riedizioni di testi precedenti: il primo (El silencio del Dios, Guardiana de publicaciones, S.A., Madrid, 1970) è già apparso in Italia a cura di U. M. Vesci nel 1985 (Il silenzio di Dio. La risposta del Buddha, Borla, Roma, 19922); il secondo (Algunos aspectos de la espiritualidad hindu) è apparso in Italia con il titolo Spiritualità indù. Lineamenti, Morcelliana, Brescia, 1975, nella traduzione di Marina Riccati Di Ceva. Entrambi gli studi costituiscono un ampio rimaneggiamento rispetto alle edizioni precedenti: il secondo libro è frutto di una completa revisione del testo originale, della rimeditazione di ogni singola riga (Il dharma..., p. 12); il primo 
rappresenta in pratica un nuovo libro (Il silenzio..., p. 7).
Il silenzio del Buddha, rimasto essenzialmente immutato nella struttura rispetto al precedente (mi riferisco ancora all’edizione italiana del 1992), è effettivamente molto rinnovato rispetto ad essa. Il linguaggio è stato completamente rivisitato (si può dire che Panikkar abbia rivisto praticamente ogni capoverso) e i contenuti sono stati ampliati, soprattutto per quanto riguarda l’apparato critico. Il testo si pone essenzialmente due obiettivi. Il primo è presentare il buddhismo al pubblico occidentale, al di là della propaganda e dei frequenti malintesi: a questo obiettivo il libro, diviso in tre parti, dedica le prime due (chiarimento dei malintesi e presentazione della religiosità buddhista; commento dei testi buddhisti). Centrale la questione del silenzio del Buddha, che dà il titolo al libro. Secondo Panikkar esso non trova riscontro nella teoria del “pugno chiuso del maestro” (per la quale il Buddha avrebbe tenute nascoste ai discepoli le verità più importanti), né in motivi di ordine epistemologico (incapacità della mente umana di attingere le verità ultime), né ancora è giustificato a sufficienza dal fatto che 
se una domanda è mal posta, se le premesse dalle quali essa deriva non possono essere accettate, il voler dare una risposta diretta equivale già a cadere in errore (p. 52).
L’apofatismo del Buddha poggia invece, secondo Panikkar, sul fatto che per il buddhismo la realtà ultima “non è”: 
La realtà ultima è a tal punto ineffabile e trascendente che, a rigore, il buddhismo le negherà di conseguenza il carattere di Essere» (p. 56). Il silenzio del Buddha è dunque per Panikkar di ordine ontologico, non epistemologico; per questo esso «non soltanto tace, ma anche zittisce (p. 57).
Il secondo obiettivo è mostrare il punto di contatto tra la cultura occidentale moderna e quella buddhista: 
se quindi ci rivolgiamo ora al messaggio del Buddha predicato venticinque secoli fa, non è per un desiderio anacronistico o per un interesse apologetico, ma perché ci sembra di scorgervi un elemento indispensabile per una spiritualità contemporanea. Entrambe le culture, infatti, quella moderna di impronta occidentale e quella buddhista, sono atee e presentano un atteggiamento apofatico di fronte agli interrogativi ultimi sulla realtà (p. 179).
Panikkar osserva che l’ateismo contemporaneo, solitamente caratterizzato come fenomeno di “irreligiosità” o di aperto rifiuto della religione, è piuttosto il rifiuto di una certa forma consunta di proporre il cristianesimo (a tal proposito Panikkar tematizza le difficoltà insite nel concetto di “sostanza” per la teologia cristiana); rifiuto basato su una religiosità che non riesce a riconoscersi più nei vecchi schemi e non può fare a meno di dichiarare il proprio disagio intellettuale:
tutte le parole umane si erodono per l’uso ma ancor più per l’abuso. Buona parte del mondo moderno non si considera più “religiosa” per le connotazioni di dogmatismo e istituzionalizzazione che questa parola è andata acquisendo soprattutto in Occidente. Molti contemporanei non si dichiarano “religiosi”, ma mostrano tuttavia interesse e simpatia per una certa spiritualità nella quale si sentono più liberi.
Un cenno a parte merita il concetto espresso dal termine “tecnocultura”, utilizzato nell'edizione del 1992 (p. 166), cui Panikkar ha poi preferito “tecnicultura” (che la presente edizione riporta a p. 167). Panikkar, che ha sottolineato l'inadeguatezza di questo termine, ha certamente avuto un ripensamento al riguardo, come afferma nella Torre di Babele: 
C’è stata un’evoluzione nel mio pensiero a proposito della tecnologia. Qualche decennio fa avevo introdotto la parola tecnicultura, pensando – forse in maniera troppo ingenua e ottimista – che la macchina potesse essere coltivata, nel senso della cultura. Oggi credo che la macchina di secondo grado abbia una autonomia e una potenza superiori, che l’uomo non è capace di dominare e dirigere.
Ciò spiega perché nella presente edizione si legge
la scienza e la tecnica possono essere gestite (p. 165)
mentre nella precedente edizione italiana si leggeva
la scienza e la tecnica possono essere coltivate (p. 165).
Nonostante Panikkar non abbia mai esplicitamente approfondito il senso e la portata di questo “coltivare la tecnica”, è evidente che il ripensamento dev’esserci stato al più tardi nel 1990, anno di pubblicazione della Torre di Babele: è quindi a mio avviso da considerarsi una semplice svista della seconda edizione (1992), priva di ricadute teoriche, il persistere del termine “coltivate”.

Il dharma dell’induismo è inteso come “esposizione didattica” dell’induismo al pubblico occidentale. La struttura (anche qui inalterata, rispetto alla precedente edizione) è abbastanza simile a quella del Silenzio del Buddha: si parte dal chiarimento dei malintesi (ciò che l’induismo non è), si procede con l’esposizione (ciò che l’induismo è) e si conclude con la presentazione dei testi. In più, rispetto all’edizione precedente, c’è l’esposizione sistematica (ancorché breve) della storia della formazione dell’induismo, dalla preistoria (periodo prevedico) all’epoca contemporanea.
L’induismo è per Panikkar un insieme di religioni più che una sola religione (p. 229); privo di contenuto oggettivo, esso è piuttosto un contenitore in grado di ospitare le interpretazioni più divergenti (p. 27). Panikkar divide in tre le grandi religioni dell’induismo: Visnuismo, Śivaismo e Śaktismo, e precisa che esse non possono essere intese come compartimenti stagni, bensì come gruppi di religioni che spesso si intrecciano (p. 229).
Panikkar sottolinea che l’induismo è ortoprassi prima che ortodossia, nel senso che esso – non avendo una dottrina individuante – «appartiene all’ordine della pura fattualità» (p. 27). Per Panikkar
l’induismo non è una religione nel senso comune (e volgare) della parola, ma semplicemente dharma (p. 31).
L’induismo non può quindi in nessun caso venir paragonato ad una delle religioni organizzate cui si è soliti far riferimento in Occidente (all’idea, ad esempio, di “cattolicesimo romano”):
l’induismo non è una dottrina [...] né un’idea [...] né un’organizzazione né un rito. L’induismo non ha limiti. Non ha definizione (p. 26).
Esso viene però fondamentalmente connotato dall’idea di “dharma”; anzi, Panikkar li identifica addirittura: 
L’induismo è semplicemente dharma. L’espressione neo-hindū di “dharma hindū” è un pleonasmo che non denota altro che l’influenza occidentale (p. 28).
Dal punto di vista etimologico, dharma vuol dire “ciò che sostiene i popoli, l’ordine cosmico della realtà tutta”: 
una traduzione, sia pure approssimata, ci pare essere quella di ordine (ordo), inteso nel senso ontologico della scolastica medievale ed equivalente ad armonia (ivi).
Anche questo libro è stato parecchio rivisto ed ampliato da Panikkar. Alcuni termini tecnici sono stati modificati: ad esempio, il “teandrico” di p. 63 della precedente edizione è stato sostituito da “cosmoteandrico”, p. 101; oppure, laddove si leggeva, nella precedente edizione “cultura indiana”, si legge ora “cultura indica”. “Induismo” è rimasto inalterato, ma “indù” è stato modificato in “hindū”. Manca in questa edizione il glossario dei segni diacritici per la pronuncia dei termini sanscriti; in compenso, il glossario dei termini sanscriti è stato esteso a comprendere anche termini tecnici come “tempiternità”. Sono state infine tradotte alcune note che nell’edizione precedente comparivano soltanto nella lingua originale.
Infine, il fatto che si tratti di un’edizione economica, se da un lato potrebbe giustificare i diversi errori di ortografia, anche nelle citazioni bibliografiche, non può certo rendere ragione del pietoso “dottore in scienza” riportato tra le notizie biografiche in quarta di copertina.

In conclusione, perché parlare oggi di buddhismo e di induismo in Occidente? Panikkar, «teologo del dialogo per eccellenza dei nostri tempi», è convinto che né l’Occidente né l’Oriente, né il cristianesimo né l’ebraismo, né il buddhismo né l’induismo, abbiano le soluzioni già pronte per i problemi globali. Egli mette pertanto al bando ogni presupposizione di autosufficienza: 
abbiamo bisogno della correzione degli altri; [così] impariamo a superare la hybris dell’autosufficienza e incominciamo a scoprire il carattere contingente di ogni tradizione che apre il cammino verso un sano pluralismo.
Per Panikkar l’unico presupposto di un dialogo genuino è che nessuno si senta superiore all’altro, disponendosi ad esso per apprendere e non per insegnare: 
apprendere è diventare discepolo e non maestro.
Si tratta di una posizione che ha sostenuto spesso, per non dire sempre, nei suoi scritti sul dialogo interreligioso. Per questo motivo non mi sembra di poter sottoscrivere un'affermazione come la seguente: 
Panikkar assegna alla cultura occidentale un compito che riconferma in qualche modo la grandezza e la superiorità della sua matrice cristiana. Infatti solo nei Vangeli si fa scienza e carne quella forza dello Spirito che affronta e supera l’inerzia della storia.
Non mi è stato possibile rintracciare in Panikkar alcuna idea del genere; la quale, a dir la verità, sembra in completo contrasto non solo con i brani citati poc’anzi, ma anche con tutto il resto del suo pensiero. In definitiva, sembra proprio che Panikkar non assegni nessun compito particolare alla cultura o alla filosofia occidentale, né tanto meno al cristianesimo; insomma, non ci sono né migliori e peggiori, né primi tra gli uguali, né ancora - per dirla con Orwell - ci sono tra gli uguali alcuni che sono più uguali degli altri. Il dialogo per Panikkar è invariabilmente fondato su di un “incontro alla pari”, per il quale utilizza spesso l’espressione “mutua fecondazione”, dove l’arricchimento è sempre reciproco. Non c'è altra strada per chi ha a cuore la verità: 
abbiamo bisogno dell’altro per divenire coscienti della trave nei nostri occhi.

(«AEF», gennaio 2010)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano