martedì 2 marzo 2010

Invito al pensiero di Ivan Illich/4, I fiumi a nord del futuro

Ovunque io cerchi le radici della modernità, le trovo nei tentativi della Chiesa di istituzionalizzare, legittimare e gestire la vocazione cristiana.
Con queste parole Illich entra subito nel vivo del discorso, che in I fiumi a nord del futuro (ed. Quodlibet, 2009) riprende e approfondisce quello iniziato con l’altro libro della stessa editrice,  Pervertimento del cristianesimo (2008), di cui abbiamo già parlato su queste pagine (cfr. “Invito al pensiero di Ivan Illich”, n° 2, novembre 2009).
Sulla istituzionalizzazione della carità è basata, secondo il sociologo austriaco, l’intera nostra società dei “servizi”, per la quale i bisogni e le specializzazioni si diffondono con una logica della necessità che va al di là di ogni ragionevolezza; Illich riporta l’esempio di un uomo messicano, alcolista, all’ultimo stadio della cirrosi: i suoi ultimi mesi di vita, inutilmente spesi in un letto d’ospedale, costarono alla sanità pubblica quanto 42 alloggi per gente del suo villaggio (la quale, incredibilmente, cominciò a credere da quale momento di non poter fare più a meno di una tale assistenza sanitaria). Il male insito in questo modo di fare sta nel suo essere “mitopoietico”, produttore cioè del mito dei servizi, secondo il quale i servizi (medici, nell’esempio) sono qualcosa di cui non possiamo privarci, anche quando sappiamo in anticipo essere palesemente inutili. È grazie a questo mito che i servizi possono diventare per noi qualcosa di cui aver bisogno anche quando non ne abbiamo bisogno (è il caso della medicina preventiva, di cui abbiamo parlato il mese scorso: cfr. anche qui “Invito al pensiero di Ivan Illich”, n° 3). Il male risiede dunque nella irrazionale e gigantesca distruzione di risorse in attività di efficacia spesso dichiaratamente nulla, ma ancor più nella generazione di un’immagine di sé e del mondo meccanicistica, priva di ogni fiducia e – alla lunga – di ogni speranza. Nella quale l’adeguatezza sul piano tecnico prende il posto della confacenza su quello ontologico:
io vivo in un mondo che ha perduto il senso del bene, il bene, la certezza che il mondo ha senso perché le cose sono confacenti le une alle altre, che l’occhio è fatto per cogliere il sole e non è soltanto una macchina fotografica biologica che si trova a registrare un effetto ottico.
Ma come è possibile ricondurre ciò al cristianesimo dei primi secoli? Per Illich, tutto risale alla “svolta legalitaria” del cristianesimo, quella appunto che – con il passaggio del cristianesimo a religione di stato – ne ha decretato l’istituzionalizzazione definitiva. Da quel momento tutto viene inquadrato nell’ottica della norma (di cui ad esempio il peccato non è che una violazione sanzionabile). Si tratta della più grande delle perversioni, perché essa riporta il dominio della legge proprio nel cuore di quel Vangelo la cui somma aspirazione era liberare l’uomo dalla legge (cfr. al riguardo l’affinità con il pensiero di Maurice Bellet, in “Invito al pensiero di Maurice Bellet”, n° 8, «l’Altrapagina», marzo 2009).
Un modo come un altro – per Illich, appunto, il peggiore – di rendere controllabile la spontaneità cristiana; la quale, basandosi sull’infrazione, diffonde in ogni dove il veleno del sospetto reciproco e anche quello di se stessi (delle proprie azioni, delle proprie intenzioni, perfino della propria innocente ingenuità e in definitiva del proprio stesso essere al mondo). Ad esso si rifanno tutte le odierne smanie di controllo totale, tipiche di una cultura che diffida di tutto e di tutti, la cui unica aspirazione è quella di giungere a possedere tutte le cose (dal punto di vista economicistico, ma anche intellettuale). Una critica, quella illichiana, spietata e pessimistica del cristianesimo? Più che altro, probabilmente, una sana e irrefrenabile voglia di spiritualità.

(«l'Altrapagina», febbraio 2010)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano