martedì 16 marzo 2010

La cosa in sé non esiste. Critica di Raimon Panikkar a due concetti filosofici applicati alla scienza moderna

Introduzione
La cosa in sé non esiste.
R. Panikkar

La cosa in sé è un’assurdità.
E. Mach [1]

A dispetto della sua grande notorietà (basti pensare che Pasolini ne parlava già nel 1961 come del “famoso” Panikkar)[2], la letteratura secondaria sul pensiero di Raimon Panikkar è incredibilmente scarsa, e quasi interamente rivolta ai temi maggiormente “di moda”: il dialogo tra le religioni e le culture, la pace, la cristologia[3].
Questo articolo è un estratto del libro (in corso di pubblicazione) che ho scritto con un duplice intento: da una lato evidenziare l’aporeticità di certi concetti filosofici di cui la scienza moderna – in particolare la meccanica quantistica – si serve quotidianamente (come quello di “cosa in sé” e di “oggettività”, di cui mi occuperò in particolare qui); dall’altro mostrare l’esistenza della possibilità di superare tali aporie tramite la metafisica cosmoteandrica di Panikkar (la cui conoscenza è qui presupposta). Questione, ritengo, a sua volta doppiamente importante: perché in primo luogo credo che la filosofia della scienza occupi un posto di primo piano nel pensiero di Panikkar (il quale tuttavia ne ha scritto saltuariamente e frammentariamente[4]; tanto meno, come dicevo, sembra essersene occupata la letteratura secondaria) e vada quindi messa in evidenza; in secondo luogo, la mutua fecondazione (per usare un termine caro a Panikkar) tra la scienza e la filosofia non può che portare buoni frutti ad entrambe, in direzione di una conoscenza sempre più integrata e armoniosa[5].

Critica della “cosa in sé”
La visione del mondo attualmente più diffusa è quella di un insieme di oggetti, ciascuno dei quali è una “cosa in sé”, legato a tutto il resto degli esseri in maniera accidentale. Per Panikkar questa posizione, che egli definisce “criptokantismo”, è sbagliata[6]. Non esiste nessuna “cosa in sé”. Anzi, nessuna cosa esiste “in sé”[7]. Il padre è padre perché c’è un figlio, ed è tale nella sua relazione con il figlio; se dalla relazione il figlio viene reciso, il padre cessa di essere tale[8]. Che la mente abbia bisogno di questa astrazione (la “cosa in sé”) per poter pensare e calcolare è fuori discussione, ma che il risultato del pensiero razionale rifletta fedelmente l’essere è non solo dubbio, ma anche contrario all’osservazione: infatti, quelle che osserviamo non sono cose in sé, separate da tutto il resto, oggetti che esistono nel vuoto in piena autosussistenza[9]. Osserviamo invece che esistono uccelli e mari; il che non vuol dire che non potrebbero esistere gli uni senza gli altri, ma solo che – di fatto – non esistono. L’astrazione, cioè la separazione delle cose, è dunque quantomeno arbitraria. Ma il problema non è solo questo: se, infatti, a partire da quanto osserviamo nella nostra esperienza, ci rendiamo conto che nella realtà tutto è connesso a tutto, ovvero che l’essere è caratterizzato da una radicale relatività (o radicale relazionalità)[10], e che non esiste niente di assolutamente trascendente, comprendiamo abbastanza presto che non è possibile recidere i legami che una cosa ha con il resto della realtà senza alterare sia la realtà sia la cosa stessa. Infatti, i legami che relazionano ciascuna cosa ad ogni altra costituiscono anche le cose stesse[11].
È opportuno un ulteriore chiarimento, data la centralità dell’argomento in questione e dato che il pensiero moderno, basato sull’identità parmenidea tra pensare ed essere, ha una tradizione più che bimillenaria: nel caso, ad esempio, del dialogo tra le religioni, entrambe le parti reclamano l’accesso ad una certa percezione della realtà. Ciò non implica che ci sia una misteriosa “cosa in se stessa”, ma nemmeno che una semplice opinione soggettiva sia tutto ciò che c’è. Implica invece che la mia concezione di una “cosa” appartiene alla realtà e persino alla “cosa” stessa[12]. Ma perché lo stesso sia vero per l’altro è necessario che né la mia visione né l’altra sia la realtà totale[13].
Dunque, la verità non si dà al termine di un’indagine oggettiva delle cose, ma nella relazione che si instaura fra due poli, ciascuno dei quali, “in sé” non è niente[14].
L’idea della cosa in sé è un retaggio della meccanica newtoniana e della filosofia kantiana che non ha alcun riscontro nell’esperienza. Ciò, come mostrerò più avanti, non va a discapito dell’oggettività né della validità della teoria fisica (a favore della quale, a non voler essere del tutto in malafede, sono più gli innegabili risultati pratici a parlare che le varie posizioni apologetiche di questo o quel fisico). D’altro canto, è indiscutibile che la fisica non possa studiare tutta la realtà presa in blocco, e che debba necessariamente isolare alcuni “oggetti” per poterli studiare in laboratorio. Questo però non implica che la realtà sia fatta di parti giustapposte: al contrario, la realtà è una e indivisa (ciò che il fenomeno fisico dell’entanglement quantistico sembra mostrare al di là di ogni ragionevole dubbio).
Che la cosa in sé non esista, non è una questione di prospettiva filosofica o ermeneutica, ma un dato di fatto attestato dalla scienza. La cosa in sé non è mai stata individuata né sperimentata da nessuno. Per la sua stessa definizione (la cosa in sé è qualcosa che si dà senza che ci sia nessuno a cogliere questo darsi, una contraddizione in termini), non potrà mai essere sperimentabile: nell’attimo in cui tale cosa in sé toccasse un qualunque strumento di misura, in quello stesso attimo cesserebbe di essere “in-sé” per diventare “con-lui”[15].
Il fatto è che nulla è per-sé, tutto è-con, co-è. Nulla nasce che non venga per ciò stesso ed invariabilmente al mondo. Qual è la temperatura di una quantità di liquido immersa in una vasca? Dipenderà dalla temperatura iniziale del termometro (ma, ancora prima, dalla possibilità dell’esistenza di un termometro). Non c’è modo di accedere alla realtà senza perturbarla: questa conclusione è ben precedente alla meccanica quantistica. (Qui il linguaggio tende le sue trappole ad oltranza: non è che ci sia una realtà a priori che viene perturbata a posteriori: in verità, ogni misura è una co-misura, un rispettivo adeguarsi del misurante e del misurato).
È difficile liberarsi dell’idea che la verità sia una e una sola, afferrabile dalla mente ed esprimibile in un linguaggio. Parmenide ci ha scavato troppo dentro perché possiamo, senza provare una spiacevole sensazione di disagio, affermare un pluralismo di diritto oltre che di fatto, che sia qualcosa di più di un limite provvisorio della conoscenza. Rinunciare al dogma della “cosa in sé” è forse la prova più difficile che Panikkar chiede al pensiero occidentale. Infatti, non è sufficiente affermare la pluralità di religioni e di filosofie per essere pluralisti: il pluralismo nasce solamente quando si rinuncia alla convinzione che “la stessa cosa” possa essere pensata in più di una maniera, e si sostiene risolutamente che la realtà è simbolica e relazionale. Insomma, non è sufficiente tollerare posizioni differenti in materia di credo religioso: un pluralismo che sia più della semplice accettazione di un pensiero diverso dal proprio (purché non lo metta in discussione) può basarsi solo su una metafisica che rinuncia all’oggettività, mostrandone tutta la parzialità e l’infondatezza. Verso un dialogo che non sia “tra sordi”, e che non riduca le reciproche posizioni ad un piatto e misero “stiamo dicendo la stessa cosa in termini diversi”, che alla fin fine non rende giustizia a nessuna di esse. Nella convinzione che la realtà sia più di quanto possiamo effettivamente pensare.

Critica dell’oggettività
Per Panikkar, le cose attestano la loro oggettività nella misura in cui si mostrano irriducibili al pensiero. In questo senso, la loro oggettività è relazionale:
l’oggettività è tale per una soggettività. L’oggettività ha un senso perché c’è la soggettività che la scopre come oggettività e come irriducibile alla soggettività. […] Qualcosa è oggettivo (faccio qui pura fenomenologia) quando si presenta, a parecchi soggetti, indipendentemente dalle differenze e dalle discrepanze tra i differenti soggetti. […] Nell’ambito di una certa cultura l’oggettività può apparire come tale quando la soggettività si è mascherata e ciò accade soltanto quando non esiste problema, quando siamo nello stesso mito. […] Il mio sforzo di relativizzare l’oggettività non è per distruggerla ma per dirigere la nostra attenzione al polo di soggettività che la costituisce[16].
La filosofia della scienza parte dalla distinzione tra oggettività (nel senso di indipendenza dalla mente) ed intersoggettività (nel senso di interpretazione soggettiva ma condivisibile da più soggetti). Ora: esiste veramente una siffatta forma di oggettività, intesa come indipendenza da qualunque mente osservatrice? Panikkar non pensa certo che, quando chiudo gli occhi, la montagna che ho davanti sparisca. Tuttavia egli è chiaro al riguardo: è il soggetto che definisce i criteri dell’oggettività, comunque lo si voglia intendere[17]. Per Panikkar la montagna è un tale “spettacolo” sempre per uno “spettatore”. Allo sparire dell’ultimo spettatore, anche la montagna sparirebbe (in quanto montagna). E questo non perché l’intelletto umano crei gli oggetti, come avviene in un certo idealismo filosofico a cui Panikkar è del tutto estraneo, ma perché la montagna non esiste “in sé”, in quanto montagna, bensì solo in quanto possibilità di rapportarsi ad una coscienza per la quale essa è montagna. Le cose sono quel che sono nell’epifania dell’essere reale, e non in un metafisico iperuranio delle cose “potenziali” e oggettive. Queste sono astrazioni dell’intelletto. Le cose sono reali perché appaiono reali[18].
Questo valga come spiegazione anche nei confronti di quella filosofia della scienza la quale ritiene che, nonostante sia impossibile per l’uomo conoscere la cosa in sé, tale cosa deve pur essere in un certo “modo” prima di rapportarsi all’uomo (altrimenti, essa asserisce, una cosa che non è in nessun modo, semplicemente non è). E quel modo è il modo oggettivo – ancorché inaccessibile all’uomo – delle cose. Ma il punto è che, ormai dovrebbe essere chiaro, ogni cosa è nella relazione, che la costituisce. Ogni cosa, “prima” di entrare in relazione (ma, ancora una volta, si tratta di un “prima” teorico, astratto, inesistente nella realtà: la quale ultima è fatta sempre già di cose in relazione tra di loro, e non è possibile dare controesempi), non è altro che “possibilità” di entrare in relazione. Se una cosa viene spogliata di tutte le sue relazioni, non ne resta più niente (se non la possibilità di entrare in relazione; anche questo, giova ripeterlo, è un esempio esclusivamente teorico). Ogni cosa è nelle sue relazioni. Al di fuori di ogni relazione, essa non è. Essere è un verbo, non un sostantivo. Essere vuol dire “essere-con”, non “sussistere”. Ogni cosa è nell’epifania di tutti gli esseri. Non esistono figli “potenziali” in attesa di entrare in relazione con i propri genitori: chiunque venga al mondo è sempre già figlio di una madre; la quale, un attimo prima di partorire, non lo è ancora. L’essere reale è fatto di cose e di relazioni: ciò che è impossibile è separare le une dalle altre. In questa pretesa impossibile risiede, secondo Panikkar, il peccato originale dell’ontologia scientifica.
Al che una certa filosofia della scienza di stampo analitico, realista, con l’intento di stabilire solide oggettive basi per la ricerca scientifica (intento lodevole, purché non se ne abusi e purché il prezzo da pagare non risulti, infine, eccessivo), torna alla carica con la domanda: ma allora, un elettrone isolato in un angolo remoto dell’universo, per il solo fatto di non essere in relazione con nient’altro, cessa di possedere le sue proprietà intrinseche[19]? O addirittura, per ciò stesso, cessa di essere?
La domanda è interessante e ingenua allo stesso tempo. Da un lato si tratta della solita astrazione mentale: vale per essa quanto detto a proposito della differenza tra pensabilità e realtà (il fatto che una cosa sia pensabile non implica che sia reale: il fatto che un albero sia pensabile indipendentemente dalle radici su cui poggia, non implica che l’albero sia senza radici: l’ontologia non tollera simili astrazioni dell’intelletto). Inoltre, l’esempio è inimmaginabile: non esiste una particella priva del suo campo, e non esiste alcun angolo dell’universo abbastanza remoto al quale detto campo non si estenda. Le influenze possono essere magari trascurabili (ed il fenomeno dell’entanglement quantistico dovrebbe mettere in guardia da approssimazioni semplicistiche al riguardo) relativamente a certe misurazioni (cioè sul piano epistemologico), ma mai realmente nulle (sul piano ontologico). Immaginare una tale situazione è dunque già una astrazione (per non dire negazione) dalla realtà. Ma c’è dell’altro. Massa, carica, spin, sono tutti nomi dati a proprietà della materia rilevate nell’ambito di esperimenti: di tanti e tali esperimenti diversi, che si è ritenuto ragionevole trasferirle dal piano epistemologico (sul quel erano state osservate) a quello ontologico, denominandole “proprietà intrinseche”. Bene. Purché non ci si dimentichi di questa origine: ogni cosa a cui si dà un determinato nome è il modo in cui la mente umana esprime il frutto del suo rapporto con la cosa. Cos’è veramente quell’oggetto? Una particella? Un’onda? Una stringa? La mente è l’ultimo giudice, soggettivamente, intersoggettivamente ed oggettivamente (nel senso discusso prima). Non c’è quindi dubbio che ci sia una realtà irriducibile alla mente, ma al contempo non c’è dubbio che ogni e qualsivoglia “come” di tale realtà sia inscindibile dalla mente. La stessa verità non è altro che «quella qualità o proprietà della realtà che permette alle cose di entrare in un rapporto sui generis con la mente umana»[20].
Qualche altra parola spesa sulle cosiddette “proprietà intrinseche” delle particelle potrà dare meglio la misura della distanza tra la metafisica della cosa in sé e quella relazionale di Panikkar. Consideriamo nuovamente le proprietà intrinseche dell’elettrone: massa, carica e spin. Proprietà intrinseca vuol dire: invariante rispetto ad ogni misurazione; cioè, ogni volta che ci si prova, si ottengono gli stessi risultati. Queste proprietà, che sul piano epistemologico sono invarianti (rispetto ad ogni tipo di misurazione, di strumento utilizzato, di luogo geografico, di sperimentatore), diventano sul piano ontologico “intrinseche”. Perché? ci si potrebbe chiedere. È veramente necessario postulare queste entità a priori? Secondo una certa scienza, anzi, secondo la visione oggi dominante in ambito scientifico, sì. Ciò perché il non farlo metterebbe in dubbio l’esistenza di una realtà esterna, oggettiva, sussistente indipendentemente da chi la osserva, ciò che la renderebbe una mera “corrente di pensiero”[21]. Il punto è proprio questo. Sembra, in tale prospettiva, impossibile prescindere (più o meno malvolentieri) dalla presunzione dell’esistenza di una cosa in sé, pena il crollo del mondo oggettivo su cui è basato l’intero edificio della scienza moderna.
Ma le cose non stanno necessariamente in questi termini, ed è proprio Panikkar a mostrare una via per uscire dall’impasse della cosa in sé “per amore o per forza”. Le cose non le creo io. Esse tuttavia non sono né prima di me né senza di me. Ma esse sono. Con me. Non c’è nulla che sia al di fuori di ogni relazione. Ogni cosa che é, è sempre all’interno di una (o più) relazioni. Nulla è in sé, in attesa – come congelato – di relazionarsi a qualcosa d’altro. Ciò non ne mina l’oggettività. Le cose sono all’interno delle relazioni. Che nulla si dia se non all’interno di qualche relazione (spesso con la mente umana) è un fatto indiscutibile. All’interno di tali relazioni le cose mantengono la loro oggettività (attestata dalla loro irriducibilità a creazioni della mente). Ma astrarre tale oggettività elevandola a separazione (o anche solo a separabilità), o addirittura ad indipendenza da ogni relazione (in particolare a quella con la mente), è un’operazione che contraddice ogni più elementare evidenza, e va pertanto limitata all’ambito del pensiero, non certo a quello ontologico. Una cosa che è, è sempre – piaccia o meno – una cosa che co-è; ogni cosa è sempre già in una relazione (si potrebbe invitare una certa scienza o una certa filosofia a formulare anche un solo controesempio). Non si danno in realtà enti sussistenti, indipendenti da ogni altra cosa; il classico esempio della particella isolata in un angolo remoto dell’universo è un esempio classico di astrazione operata della mente: ogni fisico sa che esistono relazioni trascurabili ai fini sperimentali (piano epistemologico), ma mai assenza completa di relazioni (piano ontologico). Ecco perché una metafisica basata sulla cosa in sé (che può sembrare indispensabile nell’ottica denunciata prima) risulta, a una seconda occhiata, controintuitiva e artificiosa. Ed anche superflua.
Di fatto, una cosa svincolata da ogni relazione, non è. Alla domanda che ci si può porre invece di diritto, cioè se il postulato di una cosa in sé non sia necessario a preservare l’oggettività della scienza moderna, credo di aver appena risposto.

Per tutto quanto detto, ciò che la fisica restituisce non è “la descrizione” della realtà. In primo luogo perché non è possibile dare una descrizione oggettiva di nulla, che non sia allo stesso tempo consentita e limitata dal linguaggio utilizzato (nel caso della fisica, dalla matematica). In secondo luogo la fisica non può aspirare all’onnicomprensività (basti pensare all’impossibilità di accogliere nei modelli i fenomeni unici, oltre alle limitazioni evidenziate dalla teoria del caos, su cui non è qui possibile dilungarsi): motivo per cui il suo modello non può neanche essere considerato “la migliore approssimazione” della realtà. In terzo luogo, esistono in fisica non solo descrizioni diverse per la stessa categoria di fenomeni, ma anche descrizioni tra loro incompatibili – ancorché valide nel rispettivo ambito di applicabilità – per categorie di fenomeni diverse; le quali ovviamente fanno riferimento ad ontologie differenti e rinviano quindi all’esistenza di enti differenti. Ciò che la fisica restituisce, dunque, è una serie di modelli dotati di un alto grado di misurabilità e di intersoggettività. È chiaro che tale intersoggettività basata essenzialmente sulla misurabilità rende la fisica diversa ad esempio dalla religione (alla cui esperienza, non di meno, non manca un certo grado di intersoggettività). Ma la sua immagine del mondo non può aspirare ad essere “la” visione del mondo. La fisica è “una” visione del mondo. Parafrasando Troeltsch, con tutto il rispetto per il bisogno di oggettività, la fisica non può pretendere di possederne più di quanta ne sia presente di fatto. Ovvero: c’è qualcosa, oggettivamente, ed è ciò che si indaga nell’ambito degli esperimenti (la realtà che del resto incontriamo quotidianamente). Ma di essa non possiamo dire niente oggettivamente: ogni cosa che ne diciamo ricade al di qua del linguaggio e delle forme di pensiero che utilizziamo per descriverla (e così farcene un’idea). Queste considerazioni non rendono la verità della fisica meno pregnante (infatti gli esperimenti sono certo ripetibili e i risultati verificabili) né rende la realtà meno oggettiva. Ma, per sintetizzare con l’espressione di A. Korzybski, “la mappa non è il territorio”. La realtà non coincide con la nostra descrizione di essa. Ciò vale tanto per la metafisica quanto per la fisica, ed è il motivo per cui Heisenberg chiamava “pitture verbali” le affermazioni formulate matematicamente dalla fisica, «con le quali cerchiamo di rendere comprensibili a noi e agli altri le nostre esperienze sulla natura»[22]. Distinzione che si trova chiarissima nella bella espressione che Einstein usa in una lettera a Schrödinger del 1935: «la vera difficoltà sta nel fatto che la fisica è un tipo di metafisica; la fisica descrive “la realtà”. Ma noi non sappiamo cosa sia “la realtà”, se non attraverso la descrizione fisica che ne diamo»[23].

Conclusioni
Per Panikkar non vi è conoscenza se non del tutto; conoscere la parte in quanto parte del tutto – e non come qualcosa di autosussistente – è vera conoscenza. Per questo egli non rifiuta la scienza (in quanto conoscenza “parziale”), ma la integra in un pensiero in grado di accogliere tutto ciò che pur reale, in quanto appartenente all’esperienza degli uomini e delle culture, non può – per le esigenze di rigore del metodo – trovar posto nell’alveo della scienza. La filosofia di Panikkar non ha punti di incompatibilità con la scienza moderna, ma al contrario ha molti punti di consonanza: è dunque ben fondato il suo tentativo di ritrovare l’armonia tra le due, che permetta loro di funzionare come due occhi, senza che entrambe vedano la stessa cosa, ma in modo da restituire un’immagine il più possibile chiara e completa. Senza competizione, e senza che il vantaggio dell’una debba comportare di necessità il regresso dell’altra.
La visione di Panikkar non è né a-scientifica né anti-scientifica. Essa è radicata in un confronto serrato con la scienza moderna sul terreno comune della conoscenza della realtà, in un atteggiamento di apertura, di stima, di fiducia. “Il progresso della conoscenza avviene spesso nei punti di intersezione di discipline differenti” scriveva Heisenberg nel suo Physics and Philosophy del 1958. Nella misura in cui la filosofia e la scienza si alimentano reciprocamente, il pensiero di Panikkar può essere fonte di uno scambio fecondo.


[1] La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, Bollati Boringhieri, Torino 1977, p. 471.
[2] P. P. Pasolini, L’odore dell’India, Guanda, Parma 20058, pp. 87-88.
[3] Fanno eccezione gli ottimi testi di introduzione alla filosofia di Panikkar di A. Rossi, Pluralismo e armonia, l’Altrapagina, Città di Castello (PG) e di S. Calza, La contemplazione. Via privilegiata al dialogo cristiano-induista, San Paolo, Milano 2001.
[4] Pur essendosi occupato di “fare scienza” per parecchi anni (com’egli stesso racconta nella conferenza “Ambiguità della scienza”), Panikkar ha dedicato alla scienza moderna – oltre alla citata conferenza e agli interventi più o meno ampi disseminati in quasi tutti i suoi libri – solo i testi Pensare la scienza, l’Altrapagina, Città di Castello (PG) 2004 (che tra l’altro è un testo a più voci) e La porta stretta della conoscenza, RCS, Milano 2005.
[5] Ai fini di una maggiore chiarezza all’interno del singolo contesto, ho utilizzato talvolta il termine “scienza”, talvolta il termine “fisica”. Sperando di essere riuscito ad evitare ogni confusione, sottolineo che le conclusioni possono essere applicate (salvo ove diversamente specificato) sia all’una sia all’altra.
[6] R. Panikkar, “Politica e interculturalità”, pp. 3-30, in R. Panikkar ed al., Reinventare la politica, l’Altrapagina, Città di Castello (PG) 1995, p. 21.
[7] Id., La realtà cosmoteandrica, Jaca Book, Milano 2004, p. 159. Cfr. anche Tra Dio e il cosmo. Dialogo con Gwendoline Jarczyk, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 31: «non esiste nessuna cosa in sé».
[8] Id., Trinità ed esperienza religiosa dell’uomo, Cittadella, Assisi (PG) 1989, pp. 78 ss. Suggestiva l’eco di questo pensiero in un romanzo del filosofo Maurice Bellet: «il grosso marito di Martine è morto: troppo vino rosso, troppi aperitivi, troppe sigarette e poltroneria. Il cuore. Presto fatto: in tre giorni, sparito. Jean Périer va al funerale. Abbraccia Martine, tutta in nero e in lacrime: è pur sempre la sua vita di moglie che se ne va con quell’uomo»: I viali del Lussemburgo, servitium, Sotto il Monte (BG) 1997, p. 93. P. Knitter osserva d’altro canto che in psicologia l’affermazione “noi siamo le nostre relazioni” è divenuta quasi una frase stereotipa; egli sottolinea tuttavia che «è difficile prendere alla lettera un’affermazione del genere, perché vediamo ancora le cose come sostanze più che come eventi, ci riteniamo primariamente individui più che partner»: Nessun altro nome? Un esame critico degli atteggiamenti cristiani verso le religioni mondiali, Queriniana, Brescia 1991, p. 26.
[9] «Il pensare razionale e ancor più il calcolo (anche razionale) possono operare solamente mediante l’astrazione. E l’astrazione è proprio questo: astrazione, separazione di quella parte della realtà che non si sottopone all’analisi o al calcolo. Ciò che non è razionale o ciò che non è calcolabile viene automaticamente eliminato dall’ambito di queste due operazioni. Ma queste parti della realtà non sono come le “quantités nègligeables” del calcolo infinitesimale. Non possiamo più capire ciò che non è intero». R. Panikkar, L’esperienza filosofica dell’India, Cittadella, Assisi (PG) 2000, p. 94.
[10] A. Rossi, Pluralismo e armonia, cit., pp. 28-29, il quale ritiene che il termine “relatività” vada evitato per il suo implicito richiamo ad un relativismo agnostico e scettico, dal quale Panikkar – che non perde occasione per criticarlo – è assolutamente alieno. Cfr. ad esempio R. Panikkar, La torre di Babele. Pace e pluralismo, Cultura della pace, San Domenico di Fiesole (FI) 1990, p. 134: «non sto proponendo un atteggiamento scettico o agnostico, che si contraddice nel momento stesso in cui viene formulato: se non possiamo essere sicuri di niente, allora non si può essere nemmeno sicuri della nostra incertezza!». Panikkar, che ha sempre mantenuto in italiano l’utilizzo dell’espressione “relatività radicale”, propone “relatività” e “relazionalità” come sinonimi in Id., Pace e interculturalità. Una riflessione filosofica, Jaca Book, Milano 2002, p. 58.
[11] R. Panikkar, La realtà cosmoteandrica, cit., p. 106.
[12] Così Panikkar rilegge il principio di Heisenberg: «l’osservatore modifica l’osservazione. Ma io vado molto più in là: il pensatore modifica il pensato. Questo sarebbe il mio principio». Id., “Verità-Errore-Bugia-Esperienza psicoanalitica”, pp. 14-34, in R. Panikkar ed al., Quaderni di psicoterapia infantile, n° 13, Borla, Roma, p. 26.
[13] Id., La nuova innocenza, vol. 3, CENS, Milano 1996, pp. 232-233.
[14] Id., La torre di Babele, cit., p. 59. Cfr. Id., Il silenzio di Dio. La risposta del Buddha, Borla, Roma 19922, pp. 234-235: «la relazione non è “qualcosa” che mette in relazione “altre” cose precedentemente date o esistenti, ma è la costituzione stessa delle cose in quanto tali. [...] Non ci sono cioè sostanze che entrano poi in relazione le une con le altre, ma quelle che noi chiamiamo “cose” non sono se non semplici relazioni».
[15] Ovviamente è impossibile in linea di principio dimostrare che la cosa in sé “non esiste”. Come è del resto impossibile affermare che non esiste la chimera. Il problema tuttavia non è dimostrarne l’inesistenza, bensì al contrario, da parte di chi la afferma, l’esistenza.
[16] R. Panikkar, “Deità e riflessione filosofica”, pp. 28-100, in R. Panikkar ed al., Quaderni di psicoterapia infantile, n° 21, Borla, Roma, pp. 61-62. Panikkar si richiama all’ermeneutica per affermare che «l’informazione oggettiva non esiste, così come i fatti puri non esistono. Ogni fatto è già un’interpretazione e quindi ogni informazione è già orientata in una determinata direzione, in un senso o in un altro»: Id., “L’arte dell’impossibile”, pp. 127-147, in R. Panikkar ed al., Reinventare la politica, cit., pp. 128-129.
[17] Id., La porta stretta della conoscenza, cit., p. 12.
[18] Id., Mito, fede ed ermeneutica, Jaca Book, Milano 2000, p. 22.
[19] Per la fisica l’elettrone possiede tre proprietà intrinseche, indipendenti da ogni interazione: la massa, la carica e lo spin.
[20] R. Panikkar, La torre di Babele, cit., p. 121.
[21] Cfr. ad esempio F. De Martini, “Il mondo oggettivo della meccanica quantistica e le leggende dell’ermeneutica”, pp. 151-162, in «Micromega», 2, Roma 2007, p. 152.
[22] Mutamenti nelle basi della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 1978, p. 65.
[23] Citato in V. Allori, M. Dorato, F. Laudisa, N. Zanghì, La natura delle cose. Introduzione ai fondamenti e alla filosofia della fisica, Carocci, Roma 2006, p. 13.

("Bollettino semestrale del CIRPIT", n° 1, Marzo 2010)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano