lunedì 8 marzo 2010

Linguaggio e realtà/3

Un vecchio aneddoto narra di due uomini i quali, camminando nella savana, scorgono un leone all’orizzonte. Dopo un attimo di smarrimento, uno di essi tira fuori dalla borsa delle scarpe da ginnastica e se le infila. L’altro, osservandolo, gli dice: “cosa credi di fare con quelle? Il leone sarà comunque più veloce di te”. E lui: “certo; ma a me non serve essere più veloce del leone, mi basta essere più veloce di te”.
Mors tua, vita mea, dicevano gli antichi, non è certo una novità. La novità è però che questo valga anche oggi nell’azienda capitalistica occidentale, soprattutto quella americana e inglese, che al contrario ha sempre tenuto a presentare se stessa come il luogo della felicità per tutti e non come un’arena nella quale trovare la propria morte sociale.

I luoghi di lavoro sono diventati dei ring sui quali sconfiggere i colleghi.
Il vero motore dell’economia di questo secolo è la paura

È dall’era Reagan-Thatcher (mi secca doverci tornare in continuazione, ma ancora più mi dispiace doverne osservare continuamente gli effetti), cioè dall’avvento di quello che Oliver James ha definito “capitalismo egoista”, che si è diffuso sempre di più il timore del licenziamento unitamente alla consapevolezza della scarsità e dell’inefficacia degli ammortizzatori sociali: la paura genera lo stress e tutt’e due generano l’infelicità del lavoratore (il quale, canticchiano le aziende, dovrebbe essere allegro e sorridente, perché ha ancora un posto di lavoro!).
I luoghi di lavoro diventano allora veri e propri ring in cui si cerca di sconfiggere l’altro per non essere a propria volta sconfitti; è un po’ come il campionato di calcio, solo che qui chi perde non finisce in serie B, ma rimane a casa disoccupato. Per non “scendere in B”, nelle aziende americane si lavora quindi 50 e anche 60 ore alla settimana, anche nei festivi e senza alcun compenso straordinario. Chi ha ferie non può prenderle e chi potrebbe prendersele ne fa a meno lo stesso. In questo mondo al rovescio nasce un sintomatico neologismo: presenteismo, cioè quel fenomeno per il quale i lavoratori si presentano in ufficio anche se malati e vi rimangono fino all’ultimo momento prima della chiusura, per paura di venir scavalcati da un collega. Proprio come l’assenteismo (termine in contrapposizione al quale si definisce), anche il presenteismo è una malattia del lavoratore. Malattia che ha indotto molti dipendenti dei colossi americani Wal-Mart e Amazon.com ad accettare - in cambio dello status di “soci” e non più di semplici dipendenti - riduzioni dello stipendio, ampliamento degli orari di servizio, tagli delle indennità e rinuncia formale ad organizzare un sindacato. Il motivo dietro questa scelta altrimenti assurda è semplice: un semplice “dipendente” è più facilmente licenziabile di un socio. Questi “soci” amano far credere (in primo luogo a se stessi) che la loro scelta sia legata all’empatia per gli interessi dell’azienda; ma il vero movente è la paura.
Prima ho parlato en passant di mondo alla rovescia, non a caso. In questo mondo dominato dalla paura ogni spazio di umanità viene eroso dalla guerra di tutti contro tutti, non c’è altra legge che quella della giungla. Allacciatevi le scarpe. E cominciate a correre.

(«Il Caffè», 5 marzo 2010)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano