venerdì 25 giugno 2010

Invito al pensiero di Ivan Illich/8. Di necessità silenzio

Ivan Illich è stato uno scrittore prolifico e ancor più generoso oratore, partecipando a convegni, letture, seminari, lezioni magistrali in ogni parte del pianeta, dagli Stati Uniti al Giappone. Una parte degli appunti preparati in occasione di interventi pubblici svoltisi tra il 1978 e il 1990 è raccolta nel suo Nello specchio del passato. Le radici storiche dei moderni concetti di pace, economia, sviluppo, linguaggio, salute, educazione (ed. Boroli, 2005).
Per Illich, tuttavia, importante quanto la parola, forse di più, è il silenzio. Anzi: il silenzio è a volte indispensabile, l'unica opzione possibile di fronte all'impronunciabilità di ogni discorso intorno a certi argomenti:
convivo con il rifiuto non solo di dire certe cose, ma anche di utilizzare certe parole o di consentire a taluni sentimenti di insinuarsi nel mio cuore. Non posso permettermi di meditare sulla bomba atomica senza soccombere. La riflessione su certe cose che diamo per scontate vuol dire, a mio avviso, accettare l'autodistruzione. Accettare che i nostri cuori si logorino.
Il silenzio è l'unica via di fuga da un discorso improponibile, che - per il solo fatto di cominciare - sarebbe già di una "volgarità apocalittica". Come quando si parla del disastro nucleare di Chernobyl e inevitabilmente  finisce per spuntare qualcuno che dice: "sapessi cosa ho visto in TV, le immagini dei bambini dai corpi deformi, devastati dalle radiazioni!"
Il silenzio è l'unico modo per preservare il distacco inorridito da ciò che, appunto, è orrido. Qualunque discorso, nello svolgersi, nel tradurre le cose in parole, rende l'orrore addomesticabile, sfumato, opinabile. Così lo scrisse Illich in un testo distribuito in occasione della ventesima giornata della Chiesa evangelica (Hannover, 9 giugno 1983):
Anch'io ho deciso di restare in silenzio: perché non voglio essere trascinato in discussioni sul genocidio; perché le bombe atomiche non sono armi, servono solo allo sterminio dell'uomo; perché lo spiegamento di bombe atomiche priva di senso sia la pace sia la guerra; perché a questo proposito il silenzio è più eloquente delle parole; perché è criminale discutere a quali condizioni rinuncerei a usare queste bombe; perché la dissuasione nucleare è una follia; perché mi rifiuto di usare il mio suicidio come minaccia; perché la 'zona del silenzio' che circondava il genocidio al tempo dei nazisti è stata sostituita dalla 'zona del dibattito'; perché il mio silenzio parla chiaro in queste zone di discussioni sulla pace obbligatorie; perché il mio silenzio inorridito non può essere strumentalizzato o governato.

(«l'Altrapagina», giugno 2010)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano