mercoledì 7 luglio 2010

Su Marx e Morin. Intervista a Sergio Manghi

Marx oltre Marx. Espressione spesso fraintesa, o abusata a mo' di slogan. Ma, a partire dalla celebre frase dello stesso Marx "francamente non mi ritengo un marxista", l'ultimo volume di Edgar Morin pubblicato in italiano dalla Erickson, Pro e contro Marx. Ritrovarlo sotto le macerie dei marxismi (2010), punta proprio alla riscoperta e alla riattualizzazione di un pensiero che ha ancora molto da dire a un mondo reso esausto dalla competizione e povero e ingiusto dalla globalizzazione. Abbiamo intervistato al riguardo Sergio Manghi, docente di Sociologia all'Università di Parma, esperto del pensierodi Morin ed estensore della Presentazione a questo volume.

Lei parla di "trame marxiane" presenti nel pensiero di Edgar Morin: "quanto" Marx c'è nella riflessione del filosofo francese?
Molto, come Morin dice apertamente. All'epoca della sua formazione giovanile, la cui impronta rimane impressa in tutta la sua sterminata bibliografia, Marx era il modello mimetico principale, l'immagine dello studioso per antonomasia. Dello studioso, più esattamente, che fa della teoria stessa una prassi, sapendosi immerso profondamente nel suo tempo, nell'intera storia dell'umanità e del vivente. E dello studioso, insieme, che per questo modo appassionato d'intendere le sfide della conoscenza non si lascia incapsulare nella disciplina dei saperi specializzati, ma cerca linguaggi capaci di connettere tra loro tutti gli aspetti dell'esperienza umana.
Marx è stato in grado di accostare nel suo pensiero la filosofia, le scienze, la storia, la sociologia, l'economia; Morin mette insieme antropologia, teoria dei sistemi, cibernetica, biologia. C'è qualcosa che accomuna i due pensatori nel metodo, ancor prima che nei contenuti?
È così, ma attenzione: per Morin, come per Marx, la questione del metodo non è puramente formale. Il metodo di Marx, la sua dialettica, è per Morin la prasssi di cui dicevamo. Parte dalla «rottura consumatasi tra pensiero e vissuto», scrive Morin, e li costringe a «fecondarsi vicendevolmente». Quanto allo stesso Morin, come sappiamo, ha intitolato Il metodo la sua opera principale, composta da ben sei volumi…
 Potremmo dunque considerare quello di Morin un rinnovamento della dialettica?
Sì, e no. Sì, perché Morin torna spesso sulla dialettica come visione del reale che pone in primo piano le contraddizioni e gli antagonismi, il movimento più della stasi. No, allo stesso tempo, perché Morin insiste molto sulla trappola semplificatrice in cui è rimasto impigliato tanto pensiero dialettico, che ambiva a racchiudere le vicende umane in una «sintesi» superiore, definitiva. Un pensiero, non a caso, fatalmente incline al realismo della «spallata finale», potremmo dire, in quanto convinto di possedere «scientificamente» la chiave della Storia. È la tragedia di tanti marxismi. E neppure Marx, per Morin, si può dire immune a questo fascino della «sintesi». Troppo preso, scrive Morin, dalla sua polemica contro le ingenuità dei socialisti utopisti, ai quali contrapponeva – potremmo dire poco dialetticamente – il realismo dello sguardo scientifico. Marx, scrive, Morin, «credette di cogliere le leggi del divenire storico»…
Marx: da ripensare e criticare, ma non da tradire. In che senso?
Da ripensare, attraverso la critica, per le ragioni appena accennate, e altre ancora, che Morin elenca con precisione nell'ultimo capitolo: fra altre, la sottovalutazione della parte giocata dall'immaginario, dal mito, dal cosiddetto «irrazionale», nelle vicende umane, una questione che vedeva per certi versi i suoi bersagli «utopistici» meno ingenui e più realisti di lui… E Marx, però, da non tradire. Nessuna critica può giungere a dissolvere il nucleo profondo di pensiero che fa la straordinaria originalità di Marx, della quale Morin si considera un continuatore, per quanto innovativo: l'idea che la condizione umana sia parte della condizione naturale, e che debba la sua specificità antropologica a una straordinaria generatività, a un tempo ecologica, economica, sociale, culturale, diremmo oggi. È il nucleo antropologico dei Manoscritti giovanili di Marx, per Morin oggi non ancora sufficientemente compreso.
Morin legge l'uomo "generico" dei Manoscritti come "capace di generazione e rigenerazione". Possiamo leggere in Morin un ulteriore sviluppo in senso umanistico del pensiero di Marx?
Certamente. Morin non segue certo l'elogio postmodernista del molteplice, che finisce per «dissolvere l'uomo», secondo l'auspicio «scientifico» di Lévi-Strauss, ricordato da Morin. L'universalismo del giovane Marx è per Morin un presupposto essenziale. Ovviamente da «dialogizzare» con il molteplice – ed è l'idea moriniana dell'«homo complexus». Ovviamente da intendersi in chiave generativa-rigenerativa, e non come «natura umana» data una volta per tutte – secondo la superstizione iper-scientistica del nostro tempo. Ma da non tradire.
Marx pensatore della mondializzazione: cosa ha dire il filosofo di Treviri a noi uomini d'oggi? Perché leggerlo attraverso Morin?
Il pensiero di Marx è portatore fin dalle sue origini di una prospettiva, scrive Morin, «antropologica (riguardava l'uomo e il suo destino), mondiale (internazionalista) e civilizzatrice (fraternizzare il corpo sociale)». Una prospettiva capace di enunciare oltre un secolo e mezzo fa quelle che sono oggi le sfide essenziali del nostro tempo. E che si tratta di ritrovare, nella sua vitalità, sotto le macerie dei marxismi. Rinnovandola profondamente, certo. Ma come dicevamo, senza tradirla.

(«il Recensore.com», 3 luglio 2010)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano