giovedì 7 ottobre 2010

Il ruolo della soggettività nella scienza

La soggettività ha sempre avuto, e sempre avrà, un ruolo decisivo, per non dire preponderante, nell’ambito di ogni attività umana[1]. Sembra un’affermazione scontata, o almeno difficile da contestare. Curiosamente, tuttavia, il consenso svanisce quando essa viene riferita alla scienza fisica. Non è né difficile comprendere né duro accettare l’affermazione di Nietzsche: «poco per volta mi è venuto in chiaro che cosa è stata finora ogni grande filosofia: cioè il confessarsi del suo autore. [...] Nel filosofo non c’è assolutamente nulla d’impersonale; e in particolare la sua morale offre una testimonianza decisa e decisiva di chi egli è»,[2] o di Fichte: “l’adozione di una certa filosofia piuttosto che d’un’altra dipende dalla propria personale inclinazione e, in definitiva, dal tipo d’uomo che si è”,[3] riassunte nell’ormai abusata formula che “ogni filosofia non è altro che l’esplicazione dei presupposti del filosofo”. Ma è decisamente difficile trovare qualcuno tra i propri conoscenti che sarebbe disposto a sottoscrivere
su due piedi un’affermazione come la seguente:
alla neutralità scientifica io proprio non ci credo. Non c’è neutralità possibile quando si parla dell’uomo e del suo futuro. Ma non esiste neanche nelle cosiddette scienze empiriche, che sono assolutamente impregnate di carica ideologica. A titolo di esempio, sarebbe interessante intavolare un dibattito sui presupposti ideologici che hanno portato a dare la priorità all’energia nucleare di fissione, che scaturisce dalla rottura dell’atomo, dal dividere, e che perciò è naturaliter diabolica (dia-bolico significa appunto “che divide”), su quella di fusione, che sorge dall’unione degli atomi, non dalla disunione, e che non permette di uccidere.[4]
Non siamo abituati a considerare la scienza come un luogo dove c’è posto per l’ideologia, l’opinione personale, in breve la soggettività.
E invece la soggettività appartiene al lavoro scientifico per molti versi. In primo luogo, ogni esperimento prende le mosse da una ben precisa teoria che lo ispira e che attende di essere verificata o smentita da una opportuna interpretazione dei dati ottenuti;[5] ed è noto che non esiste alcun metodo oggettivo per determinare la forma di un certo esperimento (dovuta piuttosto alla creatività del singolo ricercatore) ovvero la maggiore o minore opportunità di una certa interpretazione. Anzi, spesso si esalta il ruolo della fantasia nella ricerca scientifica (così ad esempio Mach: “il lavoro della fantasia è più importante di quello della ragione”)[6] o, più in generale, del “temperamento individuale” («quando si scoprono nuovi aspetti dei fenomeni naturali che risultano incompatibili con il sistema di teorie valido in quel momento, sorge il problema di stabilire quale dei principi già noti, usati per descrivere la natura, sia abbastanza generale da abbracciare anche la nuova situazione, e quale invece debba essere modificato o abbandonato. L’atteggiamento dei fisici verso un problema di questo genere, che richiede soprattutto intuizione e sensibilità da parte dello scienziato, dipende in parte anche dal temperamento individuale del ricercatore»).[7] A volte invece è la soggettività di un intero ambiente ad intervenire; un “cambiamento di paradigma” può avvenire
perché la generazione più giovane si stanca di seguire i più vecchi, o perché qualche personaggio di spicco dell’establishment è morto senza creare una scuola forte e prestigiosa, o perché una qualche istituzione influente, magari non scientifica, fa pressione sugli scienziati in favore di una certa idea.[8]
Il mondo scientifico è un mondo dove c’è ampio posto per il dissenso (celeberrimo il caso di Einstein che rifiuta le conseguenze della meccanica quantistica – nonostante non possa negare i risultati quantitativi degli esperimenti, ciò che però non gli impedisce di continuare a dissentire sui principi – in base alla sua convinzione che “Dio non gioca a dadi”), anche quando si tratta degli incontrovertibili fondamenti matematici,[9] ed anche quando si tratta di un ripensamento (come nell’eclatante caso di S. Hawking il quale – dopo aver costretto i riluttanti colleghi ad accettare la sua teoria tramite l’“inoppugnabile” dimostrazione del suo teorema – cambia idea e prova a convincere gli stessi della teoria opposta).[10] Ogni scienziato sa bene che la propria visione del mondo non è estranea alla propria esperienza personale;[11] e questo quando non si tratti addirittura di assecondare coscientemente un desiderio in contrasto con il fine scientifico.[12] Anche quando afferma che lo scopo della scienza è «il completo distacco dell’immagine fisica del mondo dall’individualità della mente che la crea»,[13] lo scienziato non può non aggiungere che questo scopo «non lo raggiungeremo mai completamente».[14] Libri come L’impero delle stelle di A. I. Miller o L’ombra del dubbio di Renzo Tomatis possono dare un’idea della forza con la quale la soggettività irrompe all’interno della razionalità scientifica influenzandone i meccanismi.
Schrödinger ha sottolineato il ruolo dell’influsso dell’ambiente (nel senso più ampio) nella ricerca scientifica:
L’internazionalità della scienza, specialmente la soddisfazione comune per ogni vero successo, è certamente qualche cosa di assai bello, di entusiasmante. Ma guardiamoci bene dal vedere in ciò una dimostrazione che ogni soggettività sia qui esclusa. Si è piuttosto indotti a pensare che qui, e in altri casi, la moda influisca in gran parte sul consensus omnium. Non intendo parlare, naturalmente, della valutazione dei singoli successi; proprio in questo riguardo il controllo internazionale garantisce una forte dose di oggettività; intendo parlare piuttosto del terreno su cui si cerca il successo. Così, ad esempio, anche la costatazione che il campione olimpionico ha fatto un salto in altezza di x centimetri è del tutto oggettiva. Il fatto, però, che ci interessiamo per il salto in altezza, il tennis o il lancio del disco [...] è una questione di moda.[15]
Per questo Panikkar può affermare (dopo aver distinto tra “testo” – contenuto formale dello scritto – e “pretesto” – intenzione che ha mosso lo scrittore, obiettivo dell’atto dello scrivere)[16] che
la storia della scienza è piena di tali pretesti e uno dei casi più famosi è quello di Galileo. Il promotore della oggettività scientifica, infatti, era carico di uno straordinario pathos soggettivo. I suoi testi sono pretesti per dimostrare l'errore degli aristotelici e la priorità della rivelazione naturale (divina ed eterna) del “grande libro della Natura” sulla rivelazione “positiva” delle Scritture, da leggersi grazie alla chiave fornita dalla prima. O, per usare le sue stesse parole, “è la teologia a dover interpretare i dati della scienza e non viceversa” – perché la “scienza”, secondo lui, non fa altro che interpretare i dati della natura (che considerava divina). Non esiste insomma un testo scritto senza una intenzionalità precisa che nasconde molti pretesti.[17]
Sulla stessa linea Feyerabend:
Idee che oggi formano la base stessa della scienza esistono solo perché ci furono cose come il pregiudizio, l’opinione, la passione; perché queste cose si opposero alla ragione; e perché fu loro permesso di operare a modo loro. Dobbiamo quindi concludere che, anche all’interno della scienza, la ragione non può e non dovrebbe dominare tutto.[18]
Anche in questo caso, dunque, la posizione di Panikkar suscita stupore nell’uomo comune, che pensa nei termini del luogo comune della scienza completamente oggettiva, ma non nell’uomo di scienza, che conosce molto bene e di prima mano le questioni qui accennate.
Può forse essere considerato un aspetto di quell’irruzione nella scienza della soggettività, descritta poc’anzi, il fatto che molti scienziati non solo tendano a manifestare platealmente le loro convinzioni religiose, ma che tendano ad integrarle all’interno della loro visione scientifica del mondo. Non si tratta di avere una visione effettivamente integrale delle cose, ma piuttosto di forzare il linguaggio in direzione di una sorta di “divinizzazione” della scienza, di esaltazione della ragione fino a collocarla su di un piano (quasi) sovrannaturale.
Qualche esempio potrà giovare alla comprensione di questo punto. Come mai, vien da chiedersi, Stephen Hawking, fisico insigne, usa spesso e volentieri la parola “Dio”[19] piuttosto che, ad esempio, “realtà”, certamente più consona ad un uomo di scienza che indaga la natura?[20] Perché non parla di “spiegazione del mistero dell’universo” (espressione comunque pretenziosa), preferendo “il pensiero stesso di Dio”? Sembra quasi che la pretesa di esaustività non sia sufficiente (esprimere la comprensione di tutti i fenomeni in termini fisici) e che egli ambisca invece ad una superesaustività, nella quale perfino Dio – il creatore, come egli lo chiama – debba rientrare nella fisica – la quale è certamente, Hawking ne converrà, creatura dell’uomo.
Il testo di Hawking citato in epigrafe è una raccolta di lezioni tenute a Cambridge, il che può forse compensare la sensazione di star a volte leggendo un libro di teologia discusso dal punto di vista scientifico.[21] Non così però il libro di Georges Charpak – premio Nobel per la fisica nel 1992 – e Roland Omnés, che è un saggio con tutti i “crismi”;[22] eppure vi si trova scritto che le leggi fisiche sono «l’essenza di tutto ciò che esiste, il reale centro della realtà»;[23] esse ispirano «venerazione»; le leggi sono «trascendenti» e chi ne fa la scoperta «si ritrova a provare un sentimento quasi identico a quello che i credenti provano riguardo al sacro».[24] Perciò si auspica che i giovani arrivino a possedere «il vero sapere dei sapienti, e dei profeti la lucidità e l’azione illuminata».[25] Come può un premio Nobel per la fisica utilizzare un linguaggio così poco rigoroso? Non si può non chiedersi: il suo intento è fare scienza, divulgazione o proselitismo?
In ambito italiano è ben noto l’atteggiamento di Antonio Zichichi (il quale, a onor del vero, non indulge a simili eccessi). Ma non sfugge alla tentazione Francesco De Martini[26] il quale, in un articolo pubblicato su «Micromega»,[27] ha scritto che «dobbiamo sapere con certezza che la nostra salvezza non potrà che venire da lì, dalla scienza».[28] Ciò nonostante egli, appena quattro righi prima, abbia scritto: «non abbiamo inteso enfatizzare il mito della scienza». L’impatto è ancor più forte se la frase viene accostata al biblico “la salvezza viene dal Signore” (Gn 2, 10). Insomma, siamo di fronte ad un modo di intendere la scienza (che vanta certo grandi successi, ma per la quale il fallimento non è più solo un rischio)[29] per il quale essa non è più solo indagine, ma missione. E quanto questo possa giovare alla lucidità, al distacco, all’oggettività necessarie al lavoro della scienza, non è neanche il caso di commentare.
Non c’è dunque da meravigliarsi che l’immagine “popolare” (ma ben diffusa anche tra la popolazione di cultura media e alta, come è testimoniato da un certo stile pubblicitario che si affida sempre di più “agli esperti” e ai “test di laboratorio” per concludere che questo o quello è “dimostrato scientificamente”) sia quella di una scienza fondata su una causalità rigidamente prescritta, una predicibilità completa (o sulla via del completamento) e spesso anche una sorta di infallibilità (la legge di gravità non può essere violata, si pensa; qui i piani dell’oggettività fredda e della sovrannaturalità messianica tendono, come si è visto, a sovrapporsi). Se a tutt’oggi si è rimasti ancorati ad una visione ottocentesca del mondo fisico, ciò – come ho cercato di mostrare – non è soltanto dovuto al fatto (in parte certamente vero) che della verità scientifica si abusa a ogni piè sospinto, soprattutto perché a parlare sono quasi sempre non addetti ai lavori (giornalisti, divulgatori, filosofi) che rendono conto delle cose in maniera lacunosa, o travisata, o peggio ancora manipolata;[30] di ciò sono in parte responsabili gli stessi scienziati, che tendono a fare della scienza un piedistallo, sul quale – per esigenza d’onestà intellettuale – “sentirsi superiori” non è solo possibile, ma necessario.


[1] Questo articolo è un estratto dal libro Le cose si toccano. Raimon Panikkar e la scienza moderna, in corso di pubblicazione presso l’editore Città Aperta. L’uscita è prevista per il mese di novembre 2010.
[2] Al di là del bene e del male, Newton Compton, Roma 2002, § 6, pp. 46-47.
[3] Prima introduzione alla dottrina della scienza, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 19.
[4] G. A. Soto, “Economia oppio dei popoli”, p. 73, in AA.VV., Alternative al neoliberismo, l’Altrapagina, Città di Castello (PG) 1998, pp. 71-107. Cfr. anche E. Schrödinger, L’immagine del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1963-2001, pp. 45-46: «ogni volta che la partecipazione del nostro interesse a qualche cosa assume una certa importanza, l’ambiente, la cerchia culturale, lo spirito dei tempi, o come altro lo si vuol chiamare, deve esercitare la sua influenza».
[5] Così Robert Millikan, premio Nobel nel 1923, citato in R. Oerter, Il modello standard, Codice, Torino 2006, p. 138: «la scienza [...] cammina su due piedi: la teoria e l’esperimento. A volte è un piede ad andare avanti per primo, a volte l’altro; ma un progresso continuativo si ottiene soltanto tramite l’uso di entrambi».
[6] E. Mach, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, Bollati Boringhieri, Torino 1977, p. 209.
[7] W. Pauli, “Il contributo di Einstein alla teoria dei quanti”, p. 56, in A. Einstein, Autobiografia scientifica, Bollati Boringhieri, Torino 1979, pp. 56-66.
[8] M. Cenedese, “Paul Karl Feyerabend: il problema del metodo in T. Kuhn e in K. R. Popper”, p. 7, visibile in internet all’indirizzo http://www.filosofiatv.org/?topic=storia-filosofia#71 (pagina visitata il 27 luglio 2010). Cfr. M. Planck, La conoscenza del mondo fisico, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 178: «se si aggiunge che il creatore di una nuova utile teoria è di solito poco propenso, per comodità o per ragioni affettive, ad introdurre modificazioni essenziali nei legami concettuali che gli hanno recato il successo, e che egli impegna sovente tutta la sua ben meritata autorità a sostenere il suo punto di vista originario, si comprende bene quante difficoltà incontri lo sviluppo ulteriore sano e regolare di una teoria».
[9] Sul pluralismo delle posizioni presenti nel mondo scientifico, cfr. A. Drago ed al., “Scienza, tecnologia, potere”, in AA.VV., Pensare la scienza, l’Altrapagina, Città di Castello (PG) 2004, pp. 79-149, particolarmente interessante perché dedicato alla coesistenza di più matematiche nell’ambito scientifico. Ma del resto, cosa c’è di più discordante di queste due affermazioni: «“nella misura in cui le leggi della matematica si riferiscono alla realtà, esse non sono certe; e nella misura in cui sono certe, esse non si riferiscono alla realtà”» (A. Einstein, citato in H. Margenau, “La concezione di Einstein della realtà”, p. 154, in A. Einstein, Autobiografia scientifica, cit., pp. 148-174) e quella citata di R. Penrose, La strada che porta alla realtà, RCS, Milano 20073, p. 1026: «quanto più sondiamo i fondamenti del comportamento fisico tanto più scopriamo che esso è accuratamente controllato dalla matematica».
[10] Come lui stesso racconta nel bestseller Dal Big Bang ai buchi neri, BUR, Milano 20044.
[11] Così ad esempio M. Born, “Le teorie statistiche di Einstein”, p. 83, in A. Einstein, Autobiografia scientifica, cit., pp. 67-83: «il mio modo di considerare la statistica nella meccanica quantistica risente ben poco della logica formale, e oso dire che lo stesso vale per Einstein. Il fatto che la sua opinione su questo punto differisca dalla mia può essere oggetto di rincrescimento, ma non di una disputa logica fra noi. Dipende da una diversa esperienza di lavoro e di vita».
[12] Cfr. ad es. l’opinione di G. Barbujani, per il quale nessuno può mai dirsi del tutto esente da un tale rischio: «uno scienziato che altera un dato per sostenere la propria tesi e così influenzare la comunità scientifica e l’intera opinione pubblica, è un farabutto, punto e basta. Ma è bene tener presente che nessuno di noi è immune da errori di questo tipo, dal momento che come uomini, oltre che come scienziati, siamo portatori di un bagaglio di convinzioni e preconcetti che possono distorcere, in maniera più o meno inconscia, il nostro giudizio» (“Perché non possiamo non dirci africani”, p. 83, in «Micromega», 2/2007, Roma 2007, pp. 82-92). Per quanto strano possa suonare, si tratta di un fenomeno risaputo tra i fisici: per questo motivo il metodo impone di ripetere gli esperimenti in laboratori diversi, con macchinari diversi, con sperimentatori diversi e possibilmente in luoghi diversi. Se due amici d’infanzia del MIT annunciano una grande scoperta supportandosi a vicenda, l’uno con le prove dell’altro, non solo si è scettici, ma si diventa subito apertamente sospettosi (e non di malafede, nel qual caso il discorso è completamente diverso). La prima domanda sarà: l’esperimento è già stato ripetuto? Da chi? E dove? Cfr. al riguardo P. K. Feyerabend, “Consolazioni per lo specialista”, in I. Lakatos e A. Musgrave (a cura di), Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1976, p. 284, citato in M. Cenedese, “Paul Karl Feyerabend: il problema del metodo in T. Kuhn e in K. R. Popper”, cit., p. 3: «non è per nulla prudente fidarsi troppo dei risultati sperimentali ... Diversi scienziati sperimentali sono soggetti a commettere diversi errori, e generalmente occorre parecchio tempo perché tutti gli esperimenti siano ridotti a un comu­ne denominatore».
[13] M. Planck, La conoscenza del mondo fisico, cit., p. 64. Corsivo nel testo.
[14] Ivi, p. 64.
[15] E. Schrödinger, L’immagine del mondo, cit., pp. 43-44.
[16] Panikkar li definisce in La porta stretta della conoscenza, RCS, Milano 2005, pp. 74 ss. Un’ottima descrizione si trova anche in G. Zamagni, “La teologia occidentale e l’arcobaleno delle culture”, visibile in internet all’indirizzo http://www.cosmopolisonline.it/20061108/panikkar.html (pagina visitata il 27 luglio 2010).
[17] R. Panikkar, La porta stretta della conoscenza, cit., pp. 80-81. Ma si pensi ancora, ad esempio, al Freud del Disagio della civiltà, in cui l’imparzialità scientifica cui lo psicologo aspira stride vistosamente con il suo pervasivo tono pessimistico, o a Keynes, luminare della “scienza” economica, che scrive Esortazioni e profezie «nell’intento di influenzare l’opinone pubblica».
[18] P. K. Feyerabend, “Critica e crescita della conoscenza”, pp. 146-147, citato in M. Cenedese, “Paul Karl Feyerabend: il problema del metodo in T. Kuhn e in K. R. Popper”, cit., p. 12. La questione dell’irrazionalità presente nel cuore stesso dell’indagine scientifica meriterebbe un approfondimento a parte. Qui mi limito a segnalare la lucida affermazione di M. Planck al riguardo: «i due enunciati “esiste un mondo esterno reale, indipendente da noi” e “il mondo esterno reale non è direttamente conoscibile” formano insieme il cardine di tutta la scienza fisica. Sono tuttavia in un certo contrasto fra di loro, e mettono a nudo così quell’elemento irrazionale da cui la fisica, come ogni altra scienza, è gravata, ed in forza del quale una scienza non è mai in grado di risolvere completamente il suo compito» (La conoscenza del mondo fisico, cit., p. 244).
[19] Scrive ad esempio Hawking: «se riuscissimo a scoprire una teoria completa, col tempo tutti – e non solo pochi scienziati – dovrebbero essere in grado di comprenderla, almeno nei suoi principi generali. Saremmo quindi tutti in grado di prendere parte alla discussione sul perché l’universo esiste. E, se trovassimo la risposta a quest’ultima domanda, decreteremmo il definitivo trionfo della ragione umana, poiché allora conosceremmo il pensiero stesso di Dio»: La teoria del tutto, RCS, Milano 2003, p. 168.
[20] Non è il solo, in verità, né il primo. Einstein ne ha fatto quasi un abuso (celeberrime le sue battute “Dio non gioca a dadi”; “voglio conoscere i pensieri di Dio; tutto il resto non sono che dettagli”); recentemente, il fisico Carlo Ghirardi ha intitolato il suo saggio sulla meccanica quantistica Un’occhiata alle carte di Dio, Il Saggiatore, 2009.
[21] Nel quale la parola “Dio” viene riportata non meno di 26 volte (in 170 pagine). Tuttavia Hawking ha ripreso l’idea di conoscere la mente di Dio anche nel suo bestseller Dal Big Bang ai buchi neri, cit.
[22] G. Charpak e R. Omnés, Siate saggi, diventate profeti, Codice, Torino 2004, il cui risvolto di copertina recita: «ai limiti di una “mistica della scienza”, è il libro di due ispirati profeti laici».
[23] P. V.
[24] P. VI.
[25] P. VII.
[26] Fisico quantistico noto in ambito internazionale e docente presso l’università “La Sapienza” di Roma.
[27] F. De Martini, “Il mondo oggettivo della meccanica quantistica e le leggende dell’ermeneutica”, in «Micromega», 2, Roma 2007, pp. 151-162.
[28] Ivi, p. 162.
[29] Argomento sul quale è impossibile soffermarsi in questa sede, affrontato nel citato volume Le cose si toccano nel quarto capitolo, dal titolo: “Raimon Panikkar: una filosofia contro la scienza?”.
[30] Come afferma F. De Martini, “Il mondo oggettivo della meccanica quantistica e le leggende dell’ermeneutica”, cit., p. 152, riprendendo una convinzione molto diffusa nell’ambito scientifico. Cfr. ad es. B. Goldacre, La cattiva scienza, ed. B. Mondadori, 2009, recensito all’indirizzo internet http://paolocalabro.blogspot.com/2010/06/b-goldacre-la-cattiva-scienza-ed-bruno.html).

(«Bollettino del CIRPIT», n° 1, supplemento di settembre 2010)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano