Nel suo ultimo libro per bambini, Parole di traverso. Racconti da non prendere alla lettera (ed. Erickson, 2010), Luigi Ballerini propone una nuova interpretazione del turpiloquio: “parolacce” non dovrebbero essere dette quelle della volgarità qualunque, bensì quelle “cattive parole” che feriscono l’altro, mettendolo in una condizione di colpa o di inferiorità. Soprattutto se l’altro è un bambino, per il quale ogni parola è una pietra: pesante e contundente.
Parolacce sono quelle che i “grandi” dicono ai “piccoli”, il più delle volte senza intenzione, per abitudine, o per sentito dire, senza neanche rendersi conto che i bambini le prendono alla lettera, finendo per sentirsi inadatti, o strani, in certo modo “deformi” rispetto allo
standard di un’aspettativa manifestata senza mezzi termini. È il caso ad esempio di Marco, “che si mangia le parole”, ultima delle storie raccontate nel libro. Marco è un bambino che parla in fretta, tanto in fretta da cominciare la parola successiva prima di aver completato la precedente. I grandi gli dicono sempre che lui, appunto, “si mangia le parole” e ogni volta che se lo sente ripetere gli viene un grosso mal di pancia, come se davvero ne avesse fatta indigestione.
Ma ciò che più colpisce della storia (cui non manca il lieto fine e che si dipana, come tutte, tra le coloratissime illustrazioni di Maria Grazia Ragusa) è l’incipit: «“smettila di mangiarti le parole, non si capisce niente di quello che dici”, gli dicono a casa e a scuola; però i suoi amici lo capivano lo stesso». Questo è il messaggio fondamentale del bel libro di Ballerini: spesso noi genitori (o educatori) ci adoperiamo a forzare i comportamenti dei bambini per renderli più vicini ai nostri, che chiamiamo “da adulti”, senza accorgerci che molte delle cose che non ci vanno a genio dipendono solo dalla nostra incapacità di essere come loro. Sarebbe importante non dimenticare che «ai bambini non piace non piacere, soprattutto ai loro cari. Non piacere al proprio padre poi è insostenibile per un bimbo».
Non diciamo mai abbastanza ai nostri figli quanto li amiamo, quanto siamo fieri di loro, quanto in realtà non vorremmo affatto che fossero diversi da come sono, perché anche quando sognavamo il meglio che ci poteva capitare in verità non pensavamo che potessero esistere dei bambini così belli (e che potessero toccare proprio a noi). È importante che loro lo sappiano e lo capiscano bene; ma non con parole complicate come queste. Meglio con una bella storia. Con delle parole, sì, ma di traverso.
(«Pagina3», 27 gennaio 2011)
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