mercoledì 23 febbraio 2011

Per una fede critica. Intervista ad Achille Rossi

Per una fede critica
Achille Rossi, prete cattolico laureato in filosofia e in teologia, direttore della casa editrice l’Altrapagina di Città di Castello (PG) e responsabile della sezione culturale del mensile omonimo (www.altrapagina.it), parla delle ragioni del libro AA. VV., Per una fede critica (ed. l’Altrapagina, 2010), raccolta degli Atti del XXIII Convegno internazionale di Studi dell’Altrapagina tenutosi a Città di Castello il 12 e il 13 settembre 2009 (e che ha visto la partecipazione, tra gli altri, del filosofo francese Maurice Bellet e del teologo Vito Mancuso).

Per una fede critica. Che vuol dire?
Vuol dire che la fede non può più accontentarsi della tradizionale (ma malintesa) distinzione tra vita materiale e vita spirituale, rimanendo ai margini di ciò che accade in questo mondo, in vista dell’aldilà. La fede oggi deve necessariamente esercitare la critica su almeno due versanti: quello della critica della società tardocapitalistica (o turbocapitalistica, come si dice spesso con una felice espressione) e quello della critica della fede che ci è stata tramandata. Si tratta di una fede che non accetta
la realtà così com’è come se fosse un dogma inalterabile, una specie di legge di natura, ma che si propone di modificarla e di migliorarla, animata dall’esigenza di giustizia nei confronti dell’umanità (che è esigenza spirituale quanto materiale: al povero che ha freddo non si può dare metà di un mantello “spirituale”, bisogna strappare il proprio mantello in due e dargliene metà); ed è una fede che non accetta le “cose della fede” come se si trattasse di una reliquia da conservare, ripetendo riti e proponimenti in maniera meccanica, senza cambiare nulla, tutta presa dalla paura di “modernizzare” le cose. Questa paura, al contrario, è il più grande avversario della fede: non c’è modo più efficace per uccidere qualcosa che ripeterlo incessantemente in maniera sempre uguale.
Perché «l’umanità dell’uomo si sta sbriciolando»?
Perché il modello dell’uomo-consumatore non rende né l’uomo più felice né la società migliore, ma conduce al contrario a una vita senza senso, in cui tutte le cose sono uguali - merci da consumare - senza più un ideale che valga la pena di viverla questa vita. È una tremenda forma di nichilismo che provoca la distruzione dell’umanità: è come se, lentamente, quello che è stato costruito nel corso di migliaia di anni si sbriciolasse. E con esso l’uomo che vi si trova dentro. Ne parla tra gli altri il filosofo Pietro Barcellona in tanti suoi libri (tra cui il recente Elogio del discorso inutile, ed. Dedalo, 2009): il post-umano, tanto sbandierato ai nostri giorni, finisce non per presentare l’uomo “nuovo”, come pur pretende, ma il “nessun uomo” - mero prodotto di reazioni elettrochimiche oggetto delle neuroscienze. Cogliamo i sintomi di questa malattia dell’umanità in due segni eloquenti: l’indifferenza e la violenza generalizzate (che alla fine sono collegate: dove tutto è indifferente, tutto è sacrificabile senza rimpianto).
Nel libro si critica la prospettiva evoluzionistica, soprattutto quando riferita all’uomo.
Vorrei rispondere con la battuta di un vecchio professore dell’Università di Perugia: “ma gli evoluzionisti, poi, ci credono davvero all’evoluzionismo?”. L’evoluzionismo si propone come spiegazione totale, onnicomprensiva, dello sviluppo delle cose. Ma un conto è la teoria scientifica, un conto è la cosmologia che - in mancanza d’altre teorie teologiche o filosofiche - si rischia erroneamente di dedurne. L’uomo non si rassegna ad essere un mero prodotto casuale di un processo storico; ma, soprattutto, l’uomo non si rassegna - come sottolinea Vito Mancuso - ad essere null’altro che il portatore consapevole del proprio genoma in evoluzione. Perché è a questo che l’uomo viene ridotto nella visione evoluzionistica della genetica.
Quali sono in particolare i rischi dello scientismo?
L’abbiamo appena accennato: il rischio è quello di elevare il modello quantitativo della realtà ad unico modello della realtà; nel quale la luna non è che un grosso sasso orbitante, l’uomo un ammasso di cellule governate dalle leggi della biologia ecc. L’aspetto quantitativo è “un” aspetto del reale; così come la ragione calcolante è “una” forma di ragione. Pretendere di ridurre tutto alla visione scientifica è - per dirla con Panikkar - un genocidio culturale.
Maurice Bellet propone l’agape come alternativa alla disumanità e alla morte. Utopia o urgenza?
Direi che si tratta proprio di un’urgenza. Se vogliamo uscire dal ciclo della violenza, non ci resta che imboccare il sentiero opposto: quello dell’agape, che libera dalla violenza, la cui immagine è quella del Crocifisso, che entra nella violenza senza rimanerne intaccato. Se non si imbocca la strada dell’agape non c’è salvezza per l’uomo. È per questo che il cristianesimo delle origini proclama che Dio è agape, l’amore fraterno: (l’amore del fratello non solo viene da Dio, ma è Dio), dice Agostino. Non è una questione morale o teologica, ma un problema antropologico nel quale si giocano le sorti dell’intera umanità.
(«Pagina3», 23 febbraio 2011)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano