giovedì 3 febbraio 2011

Riconoscere l'altro. L'altro come bisogno, esperienza, speranza

No-globals’ slogan “Another world is possible” should be preceded by “This world is impossible”, ethically, ecologically, spiritually. The only way to find a global – for all of us – backdoor to our global problems is to recognize the “other” as someone different “from me”, not as someone to clash with in order to reduce his thinking (and being) to mine. But, to do this, I have to trust in him : our last economical crises has been a “trust crises”, thus it was not only an economical problem. Evangelically saying, I must love the other like myself, and not like someone who has my same rights.





Non mi affliggo che gli altri non mi riconoscano. Mi affliggo di non riconoscere gli altri[1].

La fine della storia

Certe volte, per capire meglio una storia, conviene cominciare dalla fine. Serge Latouche, sociologo francese, racconta una barzelletta ripresa da Hubert Reeves: lungo la propria orbita, un pianeta arriva in prossimità della Terra, che non incontra da milioni di anni, e le chiede come va; “Non troppo bene”, risponde la Terra, “ho preso una malattia terribile, che si chiama l’umanità. L’ho presa qualche milione di anni fa, ma passa da sola, si autodistrugge”[2].

Questa boutade intorno alla fine è il mio punto di inizio. Inizio con il dire, con Achille Rossi[3], che lo slogan no-global “un altro mondo è possibile” va rovesciato: è questo mondo che è impossibile. E l’alternativa alla sua triplice impossibilità (etica, ecologica e spirituale, di seguito tratteggiata) non può affidarsi alla sola razionalità occidentale (se l’Occidente, che in buona parte ha creato e tuttora mantiene l’insostenibilità ambientale, avesse a portata di mano una strategia per far fronte al cambiamento climatico, l’avrebbe certo già attuata), né al fatalismo di quello scientismo per il quale “pur di avere mano libera, la scienza e la tecnologia risolveranno qualunque problema” e di quella economia per la quale è impossibile rinunciare ai dogmi del capitalismo e all’etica del mercato, sintetizzabili nella politica il cui simbolo sono le perturbanti parole dell’ex presidente americano G.W. Bush: “la crescita è la soluzione, non il problema”. Insomma, la convinzione al fondo di questo saggio è che nessuna cultura è in grado di dare una risposta soddisfacente a quelli che oggi sono diventati problemi globali, cioè di tutti; e che, pertanto, una soluzione ai problemi comuni vada trovata “in comune”, al tavolo con l’altro, in un clima di fiducia, stima e benevolenza reciproca, che si presti più a un’intesa sulla pace che ad un mero accordo commerciale. Tutto ciò presuppone il riconoscimento dell’altro, come soggetto di autocomprensione e non solo come oggetto della mia conoscenza. Lo sforzo che può mettere in moto la storia sta oggi nel superamento della hegeliana esigenza di venir riconosciuti dall’altro, per essere finalmente in grado di riconoscere l’altro; altrimenti si rischia davvero di andare incontro alla “fine della storia”[4]. Ma la storia finisce davvero solo quando smettiamo di usare l’immaginazione e ci lasciamo prendere (fatalisticamente, ancora una volta) dallo sconforto della sindrome T.I.N.A. (There Is No Alternatives). Tuttavia, per dirla con il regista francese Truffaut, “la vita ha più fantasia di noi”; e l’altro, con la sua diversità e la sua novità, è il simbolo di questa vita stessa, che reca con sé la speranza di un futuro – se non migliore – almeno possibile.

La struttura del saggio, ricapitolata dal sottotitolo, è articolata in tre tappe: si parte dai motivi del bisogno dell’altro, si mostra in che maniera è possibile pensare oggi l’incontro necessario con l’altro, si spiega come da quest’incontro scaturisca la speranza di un mondo migliore. Speranza e non illusione, che non si affidi al generico e illusorio futuro del we shall overcome, ma riposi sulla forza propria e traboccante di una umanità riconciliata.

Bisogno

Questo mondo è caratterizzato da una triplice impossibilità:

1. Etica, perché oggi al mondo c’è una cesura enorme fra chi è garantito e chi non lo è. Un po’ come sempre, certo, non siamo stati noi a inventare la disuguaglianza, l’ingiustizia, lo sfruttamento ecc.; ma oggi ne abbiamo una consapevolezza globale che ieri mancava, a chi sta meglio come a chi sta peggio. Ieri il povero viveva nel suo mondo di sempre, tra poveri, mentre oggi la pubblicità gli arriva fin dentro casa e lo induce a intraprendere viaggi spesso suicidi su gommone. In più, come esaminato a suo tempo da Illich e recentemente da Rahnema[5], la “povertà” d’un tempo, che garantiva comunque l’autosussistenza e una rete di servizi solidali all’interno della comunità (come ad esempio la sanità, che un tempo era gestita in casa, o il trasporto, cose per cui non si pagava nulla) è stata oggi trasformata, tramite la globalizzazione, in “miseria”, nella condizione cioè di chi è stato privato perfino del campo da coltivare per la propria sussistenza (magari riconvertito in piantagione di caffé o di pastura per animali) e trasformato in operaio salariato, ed è costretto ad acquistare servizi (come appunto quelli sanitari, o banalmente il biglietto dell’autobus) che sovente non può permettersi (bisogna ricordare che metà dell’umanità, circa tre miliardi, vive con meno di due dollari al giorno).

2. Ecologica, perché la crescita continua infrange il ritmo naturale delle cose (consumando risorse ad un ritmo enormemente più elevato di quello al quale le stesse possono rigenerarsi. Per cui essa è stata anche definita “genocidio silenzioso delle generazioni giovani”[6]). Nel report del WWF[7], che riprende le conclusioni del quarto rapporto dell’IPCC (Comitato Internazionale per il Cambiamento Climatico, insignito nel 2007 del premio Nobel per la pace)[8] del 2007, Tina Tin segnala che «precoci segnali di cambiamento suggeriscono che il riscaldamento globale di quasi 1°C ormai avvenuto, potrebbe avere già innescato il primo punto di non ritorno del sistema climatico della Terra, ovvero la scomparsa dei ghiacci artici durante l’estate»[9], e che ciò sta avvenendo ad un ritmo che anticipa di 30 anni le stesse previsioni del quarto rapporto IPCC. Il report conclude esaminando le conseguenze del surriscaldamento in atto su salute, agricoltura, pesca, ecc., in termini di siccità, turbolenze meteorologiche, equilibrio nella composizione e nello sviluppo degli ecosistemi, non tralasciando di tradurre in cifre l’impatto dei fenomeni descritti: «senza l’adozione di misure di adattamento, le perdite economiche causate da queste tempeste aumenteranno del 37% tra il 2060 e il 2100 in Gran Bretagna e Germania»[10]. Ma qui le fonti e gli esempi si potrebbero moltiplicare.

3. Spirituale, perché questo sistema produce un tipo d’uomo che ha una sola dimensione, quella economica, un homo oeconomicus che non ha tempo da dedicare allo spirito, in quanto impegna tutto quello a disposizione in calcoli di convenienza; un uomo schematizzabile come un fascio di bisogni, da soddisfare producendo e consumando, che non può indulgere a considerazioni etiche né d’altro genere, perché ogni scrupolo ne incrina la competitività.

Se i problemi odierni dell’umanità sono davvero globali, allora sono problemi di tutti gli uomini (e non solo di chi ha la scienza, o la democrazia, o il libero mercato); e se sono problemi di tutti, allora vanno ascoltate le proposte di soluzione di tutti (e non solo quelle dell’FMI o della NATO). Del resto, nessuna cultura è oggi autosufficiente, o in grado di trovare da sola quelle soluzioni[11]; l’incontro, il confronto, il dialogo con l’altro sono dunque qualcosa di cui abbiamo bisogno, non semplici velleità d’esotico o lussi da intellettuali. L’unica speranza, qui, è mettere al posto del riconoscimento di sé da parte dell’altro (bisogno tipicamente occidentale, che dell’individualismo filosofico ed economico è a un tempo motore e mosso) il riconoscimento dell’altro: dobbiamo riconoscere nell’altro colui di cui abbiamo bisogno, che è simile a noi, con il quale condividiamo i problemi e possiamo condividere le intenzioni[12]. Questa è la via.

Esperienza

Allora mi ricordo che la parola “straniero” è una delle più belle promesse del mondo, una promessa a colori, bella come la libertà[13].

La nostra epoca è refrattaria al confronto con l’altro. A tutta prima sembra paradossale, perché questa è anche l’epoca del sondaggio d’opinione, delle tribune politiche, degli show nei quali il pubblico prende posizione e partecipa alle scelte, delle decisioni “a maggioranza” (quando non a furor di popolo).

Tuttavia, a ben guardare oltre la patina mediatica di queste cose, il confronto è ammesso solo nella misura in cui non mette in discussione la radice dei nostri convincimenti più saldi: in America c’è tanta democrazia da discutere pro o contro l’ennesima guerra di invasione, ma non abbastanza da mettere in dubbio “l’interesse americano al di sopra di ogni altra cosa”[14]. Questo vale in tutti gli ambiti e a tutti i livelli: nella misura in cui l’altro non è (ancora) uguale a noi, lo si confina a Lampedusa, lo si criminalizza appena mette piede fuori del campo nomadi alla periferia della città, lo si scheda appena passa la notte fuori casa (secondo i più recenti orientamenti del governo italiano).

Ma non è sempre stato così, anzi. Epoche e culture diverse da quella occidentale hanno conosciuto un altro tipo di rapporto dialettico con l’altro. Qui di seguito vorrei offrirne una breve (e ovviamente parziale) panoramica.

L’altro nelle religioni

Comincerò dal cristianesimo (e dall’ebraismo, essendo essi così intimamente legati). Per il cristianesimo, la condizione dello straniero va articolata su almeno tre livelli: 1) lo straniero va accolto e rispettato, sempre, ma non solo: 2) la condizione dello straniero è condizione di tutti gli uomini che vivono sulla terra e in più 3) neanche Dio si trova al di fuori di questa condizione: Dio è anzi lo “Straniero per eccellenza”.

1) «Nella sola Torah – intendendo per Torah il cosiddetto Pentateuco – il comandamento di amare lo straniero ricorre una quarantina di volte, al punto che molti esegeti osservano che il vero comandamento biblico non è tanto “ama il prossimo tuo come te stesso”, quanto piuttosto “ama lo straniero come te stesso”. “Ama il prossimo tuo” ricorre soltanto una volta, “Ama lo straniero” più di quaranta volte»[15]. L’amore del prossimo e perfino l’amore del nemico (e non soltanto di coloro che appartengono allo stesso gruppo, ceto, classe, razza o religione) è al centro del messaggio evangelico, tanto da far dire a Gesù: “Questa è tutta le Legge e i profeti” (Mt 22,40). Del resto, quello di uno straniero che lascia la sua terra e tutto quello che lì ha, in termini di beni, ricordi, legami affettivi, per andare a stabilirsi in un altro luogo presso un altro popolo, è un gesto che «merita la ricompensa piena del Signore, secondo il libro di Rut»[16].

2) Nella concezione cristiana ogni popolo nasce migrante, come quello ebraico, del quale il popolo cristiano eredita il passato, in tutti i sensi[17]. E, in ogni caso, anche chi non è mai stato migrante in vita sua, è ospite e straniero sulla terra che calpesta, perché la terra è di Dio e di nessun altro; come si legge nel Salterio: “Io sono straniero sulla terra, non nascondermi i tuoi comandi” (Sal 119,19) e “Ascolta la mia preghiera, Signore, porgi l’orecchio al mio grido, non essere sordo alle mie lacrime poiché io sono un forestiero, straniero come tutti i miei padri” (Sal 39,13). La lingua italiana conserva questa riflessione nel designare con lo stesso termine – ospite – sia colui che ospita sia colui che viene ospitato.

3) Dio è straniero a sua volta, perché anch’Egli chiede ospitalità presso il cuore dell’uomo, come è scritto nell’Apocalisse (3,20): “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”. Per dirla con le chiare parole di Enzo Bianchi: «Dio non invade, sta alla porta. E in questo cercare casa, in questo cercare ospitalità, appare un Dio che è straniero, costitutivamente forestiero nel mondo, che cerca casa nel mondo e che va e si ferma dove gli si fa spazio. Ecco perché si identifica con i forestieri, con i poveri, perché sa bene cosa significhi cercare casa e non trovarla (Gv 1,11). Ecco perché l’icona del Dio viandante, non accolto e non riconosciuto, è lo straniero. Negare ospitalità allo straniero è negarsi all’incontro con Dio. Non si dà storia di salvezza escludendo lo straniero»[18].

Insomma, per Dio non esistono stranieri ma solo figli; quindi, per il cristianesimo, non esistono “altri”, ma solo fratelli. Un cristiano che comprenda questo non potrebbe sottoscrivere ad esempio l’adagio americano “la mia casa è il mio castello”, con cui si intende il diritto di condursi fra le proprie mura a proprio piacimento (compreso il diritto di sparare a un eventuale intruso, per “legittima difesa”). Il cristiano è più simile all’Abramo del Genesi (18, 1-2) il quale, visti tre uomini di passaggio fuori alla sua tenda, li implora di rimanere prostrandosi fino a terra. Questa concezione del rapporto con lo straniero è pienamente cristiana e pienamente attuale, non qualcosa “d’altri tempi”. Anche se non è solo cristiana.

Nel brano che segue, il Maestro è Confucio, il cui insegnamento è ben accostabile al comandamento evangelico dell’amore: «Zigong disse: “Se uno s’impegna tutto nel bene del popolo e sa aiutare la gente, che ne pensi? Si può dire che possieda il ren?”[19] Il Maestro disse: “Perché il ren? Santo, dovrebbe essere. Neppure Yao e Shun arrivarono a tanto. Chi possiede il ren, se vuole sicurezza per sé, vuole sicurezza per gli altri; se vuole la riuscita per sé, la vuole per gli altri. Intendere gli altri per analogia con se stessi: questo può dirsi il modo del ren”»[20].

Anche l’Islam conosce l’amore del nemico: ad esempio, secondo l’ispirazione coranica, “se ritrovi l’asino che il tuo nemico ha smarrito, devi tornare indietro a riportarglielo, perché lui ha bisogno del suo asino come tu hai bisogno del tuo”[21].

Il buddhismo presenta una idea di armonia del creato nella quale – ai fini della coabitazione pacifica dell’universo da parte di tutti gli esseri – spesso non è neanche necessario accogliere attivamente l’altro, ma è sufficiente non eccedere nell’occupare il proprio spazio. Suggestivo a tal proposito il racconto di Luciano Mazzocchi, ex missionario saveriano in Giappone per 19 anni:

Vicino alla casa della missione abitavano due vecchietti e nel loro orto c’era un albero di cachi. Qualche giorno dopo il mio arrivo, i vecchietti, marito e moglie, raccolsero i cachi, ma ne lasciarono una trentina sulla punta dei rami. Io interpretai che non avevano potuto raccoglierli, perché era pericoloso per due persone anziane salire così in alto. Pensai che quella era l’occasione buona per far vedere loro quanto fosse generoso il missionario cristiano appena arrivato. Con una scala di legno sulle spalle mi recai da loro e offrii la mia generosità per raccogliere i cachi. “Signor straniero (mi chiamarono così, perché ancora non sapevano che il titolo dato ai missionari cattolici è ‘Signor Padre spirituale’), se li raccogliamo tutti, che cosa mangiano i corvi[22]?

L’altro nella filosofia: l’altera pars di me stesso

Né si tratta di qualcosa di esclusivamente religioso. Anche nella Grecia degli albori della filosofia, l’ospitalità è sacra: i tanti testi di Eschilo, Euripide, Platone lo testimoniano. L’ospite va accolto sempre e nella maniera migliore: potrebbe infatti trattarsi di un dio. Chi vìola la legge sacra dell’ospitalità è meritevole della più aspra sanzione: così il Ciclope, reo di divorare i suoi ospiti, viene punito – nonostante sia figlio di un dio – con l’accecamento del suo unico occhio[23].

L’“altro”, lo straniero, è sempre visto come un apportatore di novità, belle o brutte che siano (egli può infatti essere ospite gradito, ma anche nemico: sul piano filologico, si sostiene che i termini hospes – ospite – e hostis – nemico – provengano dalla stessa radice etimologica). Si pensa che dall’altro si possa ricavare qualcosa di ciò che non si è in grado di ottenere da soli: nel Sofista di Platone è uno straniero a mostrare che non c’è progresso nella verità se non ci si libera dal blocco imposto dall’autorità dei padri. Esemplare al riguardo è il monologo di Socrate su Diotima contenuto nel Simposio platonico. Socrate si trova a parlare d’amore con gli altri convitati, tutti ateniesi; ad un certo punto afferma che fin lì si è tenuto un encomio dell’amore ma non un discorso di verità, perché fino ad allora “s’è impegnata la lingua, non la coscienza”. Per colmare quella lacuna e dare una svolta al discorso, egli riporta quanto appreso da una donna di Mantinea, Diotima appunto, «maestra in quello e in molti altri campi».

Diotima è una incarnazione dell’“altro”, del “diverso”, a tutto tondo. Essa infatti è straniera:

– in senso letterale, in quanto di Mantinea e non di Atene;

– rispetto al simposio, al quale di fatto non sta partecipando (né, in quanto donna, avrebbe potuto, se pur si fosse trovata lì);

– in quanto donna, di fronte a una società ateniese che attribuisce la centralità agli uomini;

– perché sapiente (rispetto ai convitati i quali, da soli, non sono riusciti ad attingere la verità);

– perché taumaturga (grazie ai sacrifici che fece compiere agli ateniesi, riuscì a rinviare la peste di dieci anni – 430 a.C.);

– in quanto sacerdotessa, mentre profani non iniziati, sono i commensali;

– infine, perché la verità che ella comunica, è dell’ordine della rivelazione, e non appartiene solo a quello della razionalità logica dei diversi logoi fin lì pronunciati.

Diotima, per bocca di Socrate, annuncerà la verità sull’eros. Come a dire che, senza l’altro, lo straniero, non è possibile giungere alla verità[24].

Vorrei riassumere quanto detto fin qui con una citazione (lunga, ma illuminante) di Raimon Panikkar, filosofo catalano che ha dedicato gran parte della sua riflessione al dialogo tra le religioni e le culture:

[Ho esplorato il senso della parola “altro”] in almeno 20 lingue. Con un certo stupore ho scoperto che il significato che utilizziamo attualmente è nuovo, inedito e non esisteva nel passato. Anche nelle lingue più vicine all’italiano, come il latino, “alter”, o “alius”, non indica quello che noi chiamiamo l’altro: vuol dire l’“altera pars” mia, l’altra parte di quello di cui sono cosciente. In tutte le lingue che conosco l’alter non vuol dire “l’altro”, lo straniero (straniero significa strano, strano per noi, naturalmente). In un certo senso l’altro non esiste. E finché non scopriamo che l’altro è una proiezione, spesso del nostro egoismo, e lo trattiamo semplicemente come uno straniero, un essere strano, un “altro” in senso moderno, non riusciremo a risolvere il problema. [...] L’altro è quella dimensione nascosta e sconosciuta che fa parte di me, e che io, quando penso in una certa forma, vedo come esterna a me stesso[25].

Soltanto facendo esperienza dell’altro, per così dire, si può conoscerlo genuinamente, al di là dei luoghi comuni, degli stereotipi della politica e delle paranoie della televisione. Esperire l’altro vuol dire conoscerlo così come egli conosce se stesso: come soggetto di conoscenza, non solo come oggetto. Bisogna immedesimarsi nell’altro, nelle sue aspirazioni, nelle sue difficoltà, nel suo contesto personale, sociale, culturale, per riuscire infine a comprendere i veri motivi dei suoi gesti e delle sue parole. Perciò è più facile comprendere l’islam se si ha un amico musulmano; un detto indiano recita: “se vuoi comprendere il nemico, devi camminare per tre lune nei suoi sandali”.

L’espressione “esperienza dell’altro” va intesa in due modi, dal versante del genitivo oggettivo e da quello del genitivo soggettivo: nel primo senso bisogna andare incontro all’altro, conoscerlo come si mostra all’esterno, nelle sue manifestazioni, nel suo ambiente, insomma – per dirla in termini matematici – nelle sue “condizioni al contorno”; nel secondo senso, bisogna immedesimarsi in lui cercando di rifare la sua stessa esperienza, cercando di mettersi nei suoi panni (in un modo forse simile a quello degli attori che provano la parte cercando di immedesimarsi nel proprio personaggio). Ovviamente, non sto descrivendo una tecnica, ma un’esigenza e un atteggiamento. Si può evitare lo scontro di civiltà solo se ci si rende conto che l’altro non è un demone distruttore e autolesionista, irrazionale e dinamitardo, ma che – proprio come noi – ha solo voglia di essere felice, con la sua famiglia, la sua casa, il suo lavoro.

Una tappa fondamentale di questa esperienza è il dialogo. Che non è la sequenza di due monologhi, né una discussione di argomenti sul piano teoretico indirizzata ad una reductio ad unum. Il dialogo è qualcosa che avvicina all’altro, che presuppone e allo stesso tempo alimenta un interesse reciproco per lo “star bene” dell’altro, in un circolo vitale che procede attraverso la conoscenza e il cui fine ultimo è la pace[26]. Il dialogo nasce dall’amore per l’altro, anche quando questi è il nemico (il che non vuol dire – attenzione – lasciarsi distruggere da lui: il terrorismo va sempre combattuto, cercando di non oltrepassare i limiti della legalità nazionale e internazionale, così come l’aggressore va sempre ricacciato al di là dei confini del proprio territorio). A volte l’invito ad amare il nemico può sembrare irrazionale. Ebbene, cos’è l’amore se non la negazione della ragione[27]?

Speranza

Tutto il discorso fin qui condotto non vuol in alcun modo essere irrazionalistico. Vuole però rimarcare con forza che la ragione non è l’unica facoltà dell’uomo, anche se essa ha sempre occupato un posto di primo piano nella filosofia e nella scienza occidentali.

Vuole piuttosto essere una proposta fatta “a ragion veduta”: se la ragione dell’“occhio per occhio”, dell’“eliminare il malvagio per eliminare il male”, ha condotto alle migliaia di guerre che i nostri seimila anni di storia conoscono, va forse finalmente presa in considerazione l’ipotesi di cambiare strada. Può darsi che la ragione non possa da sola offrire la soluzione ai problemi dell’umanità. Si prospetta un cammino incerto, fuori dai binari della certezza cartesiana e quindi fuori dalla “sicurezza” tanto di moda ai nostri giorni.

Bisogna riscoprire il valore della fiducia. Perché essa viene sempre prima, anche quando non riusciamo a rendercene conto perché immersi in meccanismi che pensiamo di poter controllare: ma il controllo non è mai totale, c’è sempre un fondamento su cui poggiamo fiduciosi. Si ascolti il seguente passaggio di Panikkar, alla luce del quale verrà inquadrato questo paragrafo:

La ricerca della certezza ha le sue origini nella paura della vita e della morte (che sono sempre incerte in quanto al tempo) e nell’idolatria di un tipo di ragione che ci fornirebbe tale certezza, anche se possiamo aver bisogno della fede in un Dio che ce la garantisca – come ha illustrato paradigmaticamente il pensiero di René Descartes. Alla fin fine questa certezza si fonda sull’evidenza razionale che scopriamo nella nostra stessa ragione e tramite essa, una volta che abbia raggiunto la chiarezza dell’evidenza. La certezza è la fiducia della ragione in se stessa che essa stessa avalla. [...] La fiducia riposa sulla fedeltà delle cose, cioè sulla loro autoidentità. La fiducia è più profonda della certezza, che si basa solo sulla fiducia nella ragione e il cui ruolo è comunque indispensabile. L’interculturalità ci toglie la certezza assoluta, ma ci rafforza nella fiducia negli altri e quindi anche in noi stessi[28].

Così per la filosofia: non esiste filosofia in vacuo; ogni filosofia non è altro che l’esplicazione dei presupposti del filosofo (Heidegger). Per Fichte la scelta di una certa filosofia piuttosto che d’un’altra dipende dalla propria personale inclinazione e, in definitiva, dal tipo d’uomo che si è[29]. Ciò che Bellet riassume con l’espressione: «il filosofo sceglie il proprio pensiero»[30]. Così infine Rossi, che riecheggia il brano di Panikkar appena citato: «cosa rende la ragione così certa di raggiungere la realtà se non un atto di fiducia? Il dibattito epistemologico nei confronti del nichilismo ha evidenziato proprio la necessità della fiducia di fondo per dire sì alla realtà. "I fondamenti sono sull’acqua", ha spiegato Popper parlando della ragione. La situazione allora sarebbe ribaltata e la ragione poggerebbe su una certa forma di fede. Curiosa vendetta!»[31].

Le cose non vanno diversamente nella “razionale” e “scientifica” economia: di questi tempi non c’è giornale – non solo economico – che non chiami l’attuale crisi finanziaria “crisi di fiducia”[32]. Temendo che la fiducia possa venire a mancare sempre di più, si teme per il futuro dell’intero sistema economico globale. La fiducia è il motore dell’economia, non la razionalità. Oggi si scopre che l’homo oeconomicus non ha in primo luogo il “dovere di consumare”[33], bensì quello di fidarsi: senza la fiducia, non c’è più credito, non c’è più produzione, né consumo, né mercato.

In generale, lo stesso quotidiano funzionamento della società si basa sulla fiducia: nulla potrebbe esistere altrimenti, se non l’hobbesiano homo homini lupus. Lo stato di diritto si fonda sulla fiducia implicita che i detentori del potere lo utilizzeranno nella maniera corretta, senza abusarne e per il bene della società (e che i trasgressori saranno puniti singolarmente, in quanto eccezioni alla regola). Se si ipotizzassero la malafede, la corruzione, l’abuso come regola, ci sarebbe bisogno di più controllori che controllati e nulla funzionerebbe più. Così J. Iguiniz Echeverria, economista sudamericano:

Normalmente contrapponiamo individualismo e solidarietà nel campo dell’ideologia, della dottrina, dei pregiudizi, dei programmi. Ogni volta di più l’investigazione economica, basata sulla sperimentazione, sta appurando che la comunità e la solidarietà sono la condizione indispensabile perché l’egoismo possa esistere senza distruggere tutto. C’è molta letteratura sull’argomento: se il lavoratore di una fabbrica fosse individualista e agisse coerentemente con tale prospettiva, non ci sarebbe fabbrica. La supervisione e la vigilanza necessarie a impedire che l’operaio si approfitti di tutto quello che può senza essere scoperto sarebbero tanto care che le imprese non potrebbero sopravvivere. La teoria economica attualmente sta dicendo che le imprese sopravvivono perché c’è solidarietà[34].

Ancora più in generale, la fiducia è l’ingrediente di qualunque cosa appartenga alla realtà: ogni cosa che nasce “viene al mondo”, che la accoglie. Un bambino appena nato non chiede spiegazioni, né dimostrazioni della possibilità o della sensatezza dell’esistere: senza discussioni, il suo cordone ombelicale viene reciso e lui è lì, vivo. Ma la fiducia non è qualcosa cui si è costretti dalla propria impossibilità di argomentare razionalmente (come quando si è in fasce), non è affatto qualcosa di irrazionale: essa è anzi la razionale constatazione del fatto innegabile che «la realtà è realtà e non l’ho fatta io»[35], che essa mi precede e precede ogni mio tentativo di comprenderla o di dominarla. In conclusione, è ancora Bellet a fornire la migliore immagine alle considerazioni fin qui esposte:

Il fondo dell’angoscia consiste nel non potersi fidare, dove invece l’uomo deve necessariamente aver fiducia. Per questo l’ansioso è, senza saperlo, il critico assoluto dello scettico. Egli testimonia che lo scettico si fida. Altrimenti, cadrebbe nel vuoto. [...] Per questo egli è ancora, sempre senza saperlo, il critico assoluto di ogni pretesa dell’“io”, di tutte le filosofie del soggetto puro – del grande solo che per prima cosa basta a se stesso! Egli rende palese un po’ crudamente ciò che accadrebbe, se tutte queste belle riflessioni divenissero reali[36].

Infine, la psicologia sociale illustra l’interessante fenomeno noto come “autoavverantesi”, che può verificarsi in seno a un’organizzazione quando è la sfiducia a porsi al fondamento dei rapporti tra colleghi. Ecco come funziona questo meccanismo: all’arrivo in azienda del nuovo capo uno degli impiegati gli parla male di un altro impiegato, dicendogli che è incapace, scansafatiche, inaffidabile. Istintivamente il capo comincia a guardare con sospetto questo impiegato dalla cattiva reputazione, tendendo ad affidargli pochi compiti e di scarsa responsabilità. Dopo un certo tempo, l’impiegato nota questo atteggiamento e – sentendosi sminuito e messo da parte – si demotiva, prende ad amare di meno il suo lavoro, lo esegue peggio. Al che, il capo prende questo fatto come una conferma di quanto gli era stato detto inizialmente e commenta tra sé: “Ecco, ho fatto bene a non fidarmi di lui: è proprio uno scansafatiche!”. Questo meccanismo non è altro che una forma contestualizzata e ricorrente di circolo vizioso, in cui partendo da cattive premesse si giunge a peggiori conseguenze. Il problema non può essere superato tramite l’eliminazione della maldicenza del primo impiegato (perché la maldicenza è inestirpabile), né tramite la speranza che il capo e l’impiegato “cattivo” si comportino diversamente dall’esempio (perché agiscono entrambi istintivamente); la soluzione del problema risiede nel suo stesso fondamento, la fiducia: soltanto fidandosi a priori, incondizionatamente, contrariamente a ogni evidenza (l’unico dato a disposizione del capo, appena arrivato, è l’informazione datagli dall’impiegato pettegolo), del proprio impiegato, il capo potrà stabilire un rapporto genuino con lui, evitando di innescare il circolo vizioso descritto. Questo esempio serve anche a chiarire che siamo noi a decidere chi è “straniero” e chi è “compaesano”, chi è “nemico” e chi è “prossimo”, chi è hostis e chi invece è hospes: in questo senso ha ragione Panikkar a sostenere che «l’altro non esiste»[37].

La storia, all’inizio

In questo tempo che ci spinge gli uni verso gli altri, fisicamente (immigrazione), economicamente e culturalmente (globalizzazione), può sembrare banale o abusato parlare una volta di più di riconoscimento dell’altro[38]. Ma il punto è che, proprio quando le parole cominciano a diventare abusate, vi è maggior bisogno di ripristinarne il senso originario. Così come la tolleranza non è accettare la presenza dell’altro purché egli rimanga a una distanza sufficiente a rendere nulla o quasi ogni interazione, ma è accettare la vicinanza dell’altro proprio quando le prassi si mostrano irriducibili nello stesso spazio, allo stesso modo il riconoscimento dell’altro non è un generico riconoscere che anch’egli ha qualcosa da dire (ma che a noi interessa poco o niente). Il riconoscimento dell’altro è un movimento dialettico che ha una sua dinamica precisa: dal momento negativo (il momento in cui mi rendo conto di non essere autosufficiente, che qui ho chiamato “bisogno”), si passa al momento positivo (la presa di coscienza di non essere solo con le mie angosce, giusto reietto in un mondo di tenebra dominato da malvagi), attraverso il termine medio dell’esperienza dell’altro, in cui scopro che le soluzioni comuni sono possibili perché i problemi sono comuni. Riconoscere l’altro non è dunque il semplice accettare il dato di fatto che egli esista e sia di fronte a me, ma il primo passo verso la fine di ogni guerra, il tramonto di ogni ideologia, di ogni controversia omicida in nome della ragione o dei valori, di ogni discorso che non abbia come fine il bene dell’uomo, di tutti gli uomini. La fine di quella avvilente narrazione in sequenza di guerre e di sterili patti di non belligeranza, di quei tentativi disumani e mostruosi di realizzare la “società perfetta”, l’“uomo perfetto”, l’“idea perfetta” con il sangue degli uomini reali, che a tutt’oggi viene chiamata “Storia”. Perché quella non è affatto la Storia, bensì – come è stato brillantemente sottolineato – la Preistoria dell’umanità[39]. La vera Storia inizia qui: dove i fratelli giacciono insieme.



[1] Confucio, Dialoghi, I, 16.

[2] S. Latouche, “Una crescita suicida”, in Aa. Vv., La sfida della decrescita, l’Altrapagina, Città di Castello (PG) 2008, p. 37.

[3] Dal cui pensiero sono in buona parte tratte le considerazioni di questa sezione. Cf. A. Rossi, Il mito del mercato, l’Altrapagina, Città di Castello (PG) 2002, nonché l’abbondante produzione giornalistica per il mensile «l’Altrapagina», consultabile parzialmente in internet all’indirizzo www.altrapagina.it.

[4] Ma non nel senso inteso da Fukuyama, “ingenuo al punto da essere commovente” (per dirla con Massimo Fini, Sudditi. Manifesto contro la democrazia, Marsilio, Venezia 2004, p. 109n.). Cfr. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, RCS, Milano 1992-2003.

[5] M. Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, Einaudi, Torino 2005.

[6] A. Rossi, “Misticismo e secolarità: sfide contemporanee; la filosofia moderna in Occidente e Oriente”, tavola rotonda con F. Dubosc, P. Barone e G. Vianello al Convegno internazionale in omaggio a Raimon Panikkar, Venezia 6 maggio 2008.

[7] T. Tin (a cura di), “Cambiamento climatico: più veloce, più forte, più vicino”, visibile in internet all’indirizzo http://www.wwf.it/UserFiles/File/News%20Dossier%20Appti/DOSSIER/dossier%20clima/dossier_CLIMA_20_10_08.pdf.

[8] Visibile in diverse lingue (purtroppo non in italiano) in internet sul sito www.ipcc.ch.

[9] T. Tin (a cura di), “Cambiamento climatico: più veloce, più forte, più vicino”, cit., p. 2.

[10] Ivi, p. 6.

[11] Cf. R. Panikkar, “L’invisibile armonia: teoria universale della religione o fiducia cosmica nella realtà?”, in «Filosofia.it» online, ISSN 1722-9782, ottobre 2008 (visibile in internet all’indirizzo http://www.filosofia.it/pagine/pdf/argomenti/Panikkar%20trad_armonia%20invisibile.PDF).

[12] Ciò che stato sintetizzato con chiarezza da G. Cacciatore: «si può dire che il riconoscimento delle differenze oltrepassa il dato, per così dire, descrittivo e mette in campo una intenzionalità etico-filosofica che accetta come premessa fondativa il riconoscimento di una realtà multiculturale, ma ne sviluppa altresì gli effetti verso la ricerca reale di una convivenza che deve trasversalmente caratterizzare quasi tutte le società avanzate della contemporaneità» (“Ermeneutica e interculturalità”, p. 51, in G. Cacciatore-P. Colonnello-S. Santasilia, Ermeneutica tra Europa e America latina, Armando, Roma 2008, pp. 49-60).

[13] M. Levy, I figli della libertà, Rizzoli, Milano 2008.

[14] Non è possibile qui approfondire i metodi con i quali, nelle società cosiddette “democratiche”, l’opinione pubblica viene controllata e indirizzata verso gli interessi delle elite, economiche o politiche: cf. N. Chomsky, Sulla nostra pelle, Marco Tropea, Milano 1999, in particolare il capitolo 2, “Consenso senso consenso: un’opinione pubblica addomesticata”.

[15] Aa. Vv., Lo straniero: nemico, ospite, profeta?, Paoline, Milano 2006, p. 60.

[16] Ivi, p. 43. Sul tema dell’ospitalità cristiana cf. l’ottimo libro di E. Bianchi, Ero straniero e mi avete ospitato, RCS, Milano 2006, nonché I. Illich, Pervertimento del cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su Vangelo, Chiesa, modernità, Quodlibet, Macerata 2006.

[17] «Il popolo ebraico, a cui Gesù era legato secondo la carne e il sangue, si autodefiniva nella Bibbia come una comunità di “forestieri e pellegrini”, tant’è vero che aveva codificato questa straordinaria normativa su cui dovrebbero riflettere anche molti legislatori sedicenti cristiani: “Vi sarà una sola legge sia per il nativo sia per lo straniero residente in mezzo a voi... Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli dovrete far torto, ma lo tratterete come colui che è nato fra voi; l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto” (Esodo 12, 49; Levitico 19, 33-34)»: G. Ravasi, “Il clandestino di Betlemme”, supplemento domenicale del quotidiano «Il Sole 24 ore», n° 352, 21 dicembre 2008, p. 29.

[18] Aa. Vv., Lo straniero: nemico, ospite, profeta?, cit., p. 8.

[19] «La parola [ren] suona come “uomo” e si scrive unendo le due componenti “uomo” e “due”: l’uomo e l’altro, essere uomo in quanto ci si riferisce all’altro uomo. Si tratta dell’atteggiamento di reciprocità al fondo della mente e del cuore, che ne illumina ogni altro»: E. Masi, introduzione a Confucio, I dialoghi, RCS, 1989.

[20] Confucio, I dialoghi, cit., VI, 28.

[21] Cf. J. a. Rumi, Il poema del misticismo universale, 6 voll., RCS, Milano 2006.

[22] L. Mazzocchi e A. Tallarico, Il vangelo e lo zen. Dialogo come cammino religioso, Dehoniane, Bologna 1994, p. 71.

[23] Questo paragrafo si basa in buona parte sul saggio di U. Curi, “Endiadi dello straniero”, in «Paradigmi», n° 60, 2002, pp. 469-497.

[24] C’è un detto spagnolo che si spinge ancora oltre: “del enemigo el consejo”, il consiglio viene dal nemico.

[25] R. Panikkar, “L’altro fa parte di noi”, pp. 9-10, in R. Panikkar-M. Cacciari-J. L. Touadi, Il problema dell’altro, l’Altrapagina, Città di Castello (PG) 2007.

[26] Perché spesso – per non dire sempre – l’incontro con l’altro è “esperienza di rivelazione”: conclusione che dà il titolo all’ultimo libro di Raimon Panikkar (L’altro come esperienza di rivelazione, intervista a cura di A. Rossi, l’Altrapagina, Città di Castello (PG) 2008), ma che si ritrova ad esempio anche nel citato E. Bianchi, Ero straniero e mi avete ospitato, pp. 77 ss.

[27] T. Terzani, Un altro giro di giostra. Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo, Longanesi, Milano 2004, p. 549, citato in G. Germani, Tiziano Terzani: la rivoluzione dentro di noi, Longanesi, Milano 2008, p. 130.

[28] R. Panikkar, Pace e interculturalità. Una riflessione filosofica, Jaca Book, Milano 2002, pp. 101-102.

[29] J. G. Fichte, Prima e seconda introduzione alla dottrina della scienza, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 17-19.

[30] M. Bellet, La lunga veglia 1934-2002, servitium, Gorle (BG) 2004, p. 106.

[31] A. Rossi, “La china scientista”, «l’Altrapagina», novembre 2008.

[32] E non solo da parte di qualche sprovveduto articolista o di qualche titolo sensazionalistico: sono i più grandi economisti a mettere l’accento su questo aspetto. Cf. ad es. J. Stiglitz, premio Nobel per l’economia 2001, in «Internazionale», n° 762, 19.9.2008, p. 11. Ma l’analisi di questo punto si trova già in Keynes.

[33] Espressione ricorrente, ai nostri giorni, a “sinistra” quanto a “destra”: così si espresse qualche tempo fa Vittorio Zucconi, direttore di Radio Capital e noto esponente della sinistra liberale italiana, nel corso di una trasmissione della stessa radio; così si esprime oggi Boris Johnson, conservatore sindaco di Londra, spiegando che «preservare lo spirito consumistico del Natale anche in tempi di crisi è il “dovere patriottico” di ogni cittadino britannico»: notizia ANSA del 23 dicembre 2008.

[34] J. Iguiniz Echeverria, “Il fascino discreto del capitalismo”, pp. 67-68, in AA.VV., Alternative al neoliberismo, l’Altrapagina, Città di Castello (PG) 1998, pp. 45-70.

[35] R. Panikkar, “L’arte dell’impossibile”, p. 143, in R. Panikkar ed al., Reinventare la politica, l’Altrapagina, Città di Castello (PG), 1995, pp. 127-147. Il quale continua: «adattarsi a essa mi pare sia l'inizio della saggezza».

[36] M. Bellet, Il corpo alla prova o Della divina tenerezza, servitium, Gorle (BG) 20002, p. 72.

[37] Oltre al citato libro L’altro come esperienza di rivelazione, mi permetto di rinviare a P. Calabrò e M. peluso, “L’altro non esiste”, «l’Altrapagina», ottobre 2008, pp. 30-31, visibile in internet all’indirizzo http://www.altrapagina.it/ingrandimento_articolo.php?ID_Articolo=2071&Categoria1_Click=8&ID_Cat_Art_1=13&ID_Cat_Art_2=94&tit=L%E2%80%99altro%20%20non%20esiste.

[38] Cf. ad es. G. Cacciatore, “Ermeneutica e interculturalità”, cit., p. 57, per il quale «il solo riconoscimento non basta, come non basta il solito appello retorico alla tolleranza».

[39] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, prefazione del 1859.

(«Dialettica e filosofia», febbraio 2011)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano