sabato 19 marzo 2011

Ragazzi di periferia. Intervista ad Adnane Mokrani sullo stato della rivolta popolare in Nordafrica.

Egitto. Cristiani proteggono musulmani durante la preghiera
ADNANE MOKRANI, nato in Tunisia, ha studiato all'università di Al Zajtuna di Tunisi e all'Angelicum, l'istituto d'insegnamento e ricerca dell'Ordine dei Domenicani a Roma. Giornalista dell'AdnKronos e docente di Studi Islamici presso l'Università Gregoriana. Ha fatto parte del Comitato scientifico presso il Ministero dell'Interno (ministro Giuliano Amato) che ha elaborato una Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione.

Egitto, Tunisia, Algeria: cosa sta succedendo?
Sta avvenendo un cambiamento epocale che segnerà per sempre la storia di questi popoli. Un risveglio della coscienza popolare, una grande sete di democrazia, libertà e diritti umani, espressa in una unità nazionale che ha superato tutte le divisioni precedenti; una gran voglia di essere cittadini veri, presenti, attivi, che rifiutano le dittature, la
manipolazione mediatica, il degrado sociale, l’emarginazione. Un cambiamento molto promettente e un grande segno di speranza.
Era in qualche modo prevedibile?
Era difficile prevederlo, ma non ci si è arrivati d’improvviso. Dietro questo eventi c’è un accumularsi di oppressione e di umiliazioni che ha trovato il momento giusto per esprimersi. In modo pacifico e civile.
Nonostante ci siano stati scontri di piazza anche molto violenti.
Gli scontri di ieri [l’intervista è del 4 febbraio 2011, N.d.R.] sono organizzati dal governo egiziano, che utilizza alcune milizie di poliziotti insieme a bande di mercenari assoldati a questo scopo, che non rappresentano né le intenzioni né i modi della rivolta popolare, che è pacifica. Due giorni fa abbiamo visto circa 8 milioni di egiziani uscire per le strade, oggi lo stesso. C’è una volontà chiara e forte da parte della gente; gli altri sono provocatori che cercano di impedire le manifestazioni. La guerra civile è un’invenzione della polizia e dei servizi segreti.
Quindi un episodio come quello del saccheggio del museo egizio è adducibile a dei provocatori infiltrati?
In realtà il saccheggio è stato parziale e non abbiamo molte informazioni certe al riguardo. Il danno è stato comunque contenuto, per fortuna. Anche qui, quelli che hanno saccheggiato e bruciato erano per lo più agenti dei servizi segreti che vogliono presentare il dittatore come unico garante dell’ordine costituito.
Non è possibile dunque leggere dietro a quest’attacco al museo una volontà di fare tabula rasa del passato, di liberarsi in qualche modo da questo imponente simbolo del passato e andare avanti?
Non vedo nessun segno del genere. Il popolo egiziano è unito e fiero del suo passato, 7.000 anni di civiltà, cultura, storia. La rivolta è contro il regime, non contro una tradizione plurimillenaria. L’Egitto è stato la culla della civiltà; è anzi nel nome di questa lunghissima tradizione che rende fieri, che fiorisce la rivolta contro questo regime corrotto.
Voglia di libertà. Ma non c’è forse anche la fame?
Sicuramente c’è anche una dimensione economica, più forte in Egitto - dove il 40% della popolazione è sotto la soglia di povertà. Ma non è corretto ridurre a quest’unico fattore tutta la rivolta. C’è una grande sete di dignità. Potrei riassumere queste rivoluzioni in 3 parole: dignità, fiducia e speranza. Ma soprattutto dignità: ritengo sia la cosa più importante e presente, perché non credo che ci sia una mancanza di cibo così grave da spingere a una rivolta di queste proporzioni.
Possiamo aggiungere anche un fattore di scontro religioso?
No, anzi: osservo che i valori che animano la protesta sono universali, si parla di diritti naturali di tutti i popoli, al di là delle religioni. Spiccano rivendicazioni circa l’unità, la libertà e la democrazia, e non valori afferenti a delle ideologie. Esiste in queste proteste una solidarietà trasversale alle religioni.
Eppure alcuni scontri sono finiti male per i copti.
In Egitto vediamo grandi semi di unità nazionale. Proprio ieri ho visto in internet una bellissima foto di giovani copti che creavano un cordone per proteggere i musulmani durante la preghiera. Secondo me questa rivoluzione egiziana - che usa come simbolo solo la bandiera nazionale egizia - potrebbe essere addirittura il rimedio alle divisioni tra musulmani e cristiani. Il vero nemico del cristiani in Egitto è il dittatore Mubarak, che aveva nelle sue mani tutto il potere per evitare la deriva fondamentalista e non ha fatto null’altro che incentivarla, facendo sì che i cristiani si trovassero alla fine privi di protezione dal terrorismo islamico. C’è un luogo comune in Occidente per il quale i dittatori sarebbero garanzia di protezione delle minoranze cristiane: questo è un grande errore, perché il fondamentalismo religioso di solito è al contrario proprio il frutto della dittatura. Questi dittatori cercano continuamente di presentarsi come i difensori dell’Occidente contro il pericolo e la minaccia fondamentalista: ma la verità sta all’opposto, essi sono i veri produttori del fondamentalismo e del terrorismo, perché la loro politica oppressiva ed economicamente iniqua crea gli spazi in cui il fondamentalismo può germogliare. La vera libertà invece è l’unica cosa che può togliere il tappeto sotto ai piedi dei fondamentalisti e impedir loro di fare proseliti; la democrazia è l’unico vero rimedio al fondamentalismo e al terrorismo.
Quindi potremmo addirittura trarre una lezione di pacifismo e di dialogo da queste rivolte nordafricane.
C’è una gran voglia di pace e di dialogo. I manifestanti non erano armati, non hanno risposto in maniera violenta alle provocazioni dei militari, ed erano pronti a morire anche senza usare le armi. Abbiamo già visto qualcosa di molto simile 2 anni fa in Iran con il cosiddetto movimento dell’“onda verde”, in protesta contro Ahmadinejad.
Quale sarà l’esito a livello politico locale?
I primi passi sono stati fatti, ma ovviamente non ci sono garanzie. L’importante è che le società civili riescano ad organizzare il popolo e a creare una propria tradizione democratica, educando alla cittadinanza democratica e preparando il terreno alla democrazia parlamentare di domani. Perché non si tratta solamente di una questione di pluralismo politico, di partiti politici, ma di un cambiamento radicale della società stessa, che deve trasformarsi da spettatrice passiva in protagonista attiva. C’è un grande lavoro da fare; a partire dalle generazioni di giovani che stanno fuori dai partiti politici e sono entrati oggi in massa sulla scena politica, senza una leadership carismatica, senza una figura centrale, in un movimento giovanile ampio che pian piano sta crescendo e maturando un discorso e una forma compatta ed organizzata.
Parlando dei giovani: quali prospettive avevano ieri, e quali possono averne oggi?
Fino a questo momento i giovani non trovavano lavoro ed erano senza speranza. Ma adesso la speranza c’è. Il paradosso della lotta europea all’immigrazione clandestina è l’alleanza con dittatori come Gheddafi al fine di impedire l’arrivo dei clandestini. Si tratta di un’operazione controproducente, destinata ad ottenere l’effetto contrario di quello desiderato, perché finché ci saranno i dittatori ci sarà sempre l’immigrazione clandestina. La vera lotta all’immigrazione la si combatte creando il futuro in questi Paesi, cominciando a rimuovere questi dittatori, che chiudono ogni orizzonte ai giovani e li costringono alla disperazione e alla fuga, rischiando la vita per attraversare il Mediterraneo. Creare un clima democratico e libero in questi Paesi, ecco la vera soluzione: va da sé che questi giovani “aspiranti clandestini” non hanno nessun interesse a fuggire in un Paese straniero se possono trovare delle opportunità di sviluppo e di crescita a casa loro. Nessuno nel mondo sceglie di cambiare Paese, se può trovare a casa sua quello che cerca in termini di dignità, di affetto, di sviluppo umano personale e sociale. È una cosa così ovvia, eppure così difficile da afferrare.
La democrazia è dunque il primo passo verso una svolta anche economica?
La dittatura è il monopolio della ricchezza ed è un sistema in cui le risorse vengono distribuite iniquamente, a vantaggio di pochissimi nelle cui mani si concentrano tutte le risorse e tutto il potere. C’è una grande distanza, in questi regimi, sempre più grande, tra i ricchissimi e i poverissimi. La distribuzione è ingiusta: questo genera rabbia e frustrazione. Lo si è visto chiaramente in Tunisia, dove il potere politico e la ricchezza economica sono sempre stati concentrati nella capitale in una zona della costa nord, lasciando in stato di abbandono tutta la parte interna e il sud del Paese. Torniamo all’intreccio tra movente economico e movente politico: la rivolta nasce dal rifiuto di un’emarginazione sociale foriera di povertà.
Dov’è nata la contestazione?
Tutto è cominciato in periferia, nelle città più lontane del deserto tunisino, per raggiungere la capitale soltanto alla fine.
Non è stata dunque una di quelle manifestazioni - guidate da una elite, una intellighenzia - che nascono nelle megalopoli universitarie.
Come dicevo, tutto questo non nasce nelle grandi città ma in periferia. Tuttavia è una rivolta animata dai giovani, che sono per la maggior parte laureati. Questi giovani che vengono dalle province sono molto colti, il loro discorso politico è molto sviluppato. Non è dunque una agitazione dettata dall’ignoranza, ma al contrario diremmo da una ben precisa presa di coscienza.
Possiamo dire allora che si tratti di una rivolta delle periferie contro il centro?
È piuttosto una rivolta delle periferie “verso” il centro. L’aspirazione non è quella di assumere un altro “status”, ma una richiesta di riequilibrio economico e di integrazione sociale. Ne parlavo prima a proposito dell’unità nazionale. Non si ambisce a conquistare una dignità altrui: si rivendica la propria.
Passando dal piano locale a quello internazionale: potrebbero esserci conseguenze in politica estera?
Sicuramente. Percorrendo questa strada si arriverà ad un nuovo mondo arabo, in cui tutto sarà diverso: le alleanze, i rapporti diplomatici. il sistema finora vigente era basato su un patto scellerato fra corruttori e corrotti: che è sempre la via più breve in questi casi, perché è fin troppo facile corrompere un dittatore - che non attende altro - al fine di ottenere facilitazioni su progetti economici o alleanze strategiche. Da ora in poi, trattare con un Parlamento libero sarà più difficile, ma più solido, perché più stabile e più legittimo. La fine della corruzione recherà dei rapporti internazionali più equi, equilibrati ed umani.
E ad esempio un Paese come Israele, che ha sempre avuto nell’Egitto un bastione contro l’avanzata del fondamentalismo islamico, dovrà rivalutare la sua posizione internazionale e rimodulare il processo di pace in Palestina?
Va da sé. Eppure, come dicevo prima, l’idea che i dittatori siano una garanzia per la pace è solo un luogo comune cui ci si è abituati: la realtà è che la dittatura non crea altro che distruzione e umiliazione. Cioè nient’altro che instabilità.
C’è il rischio di speculazioni finanziarie o di ripercussioni economiche a più lunga gittata?
in questo momento di incertezza all’orizzonte è chiaro che la finanza vada un po’ in subbuglio (e se ne approfitti). Ma appena le cose cominceranno a tornare pian piano alla normalità, anche l’economia trarrà giovamento dal mutato panorama politico.
Lei nutre insomma una visione molto positiva di questi accadimenti. C’è per contro qualcosa di cui noi europei dovremmo preoccuparci?
Non vedo perché gli europei dovrebbero temere la democrazia in nordafrica. Purtroppo aleggia sempre - sovente a sproposito - la paura della minaccia fondamentalista. Quello che ho osservato è che il mondo arabo islamico ha vissuto 3 diversi “stadi” negli ultimi cento anni: quello del nazionalismo laico (per esempio quello di Ataturk in Turchia), incentrato sulla politica di dittatori laici nazionalisti; quello che lo ha seguito, cioè il fondamentalismo religioso (avutosi in seguito al fallimento dello spazio politico post-coloniale) degli anni ‘70 e ‘80. Siamo ora al terzo stadio: in cui assistiamo alla nascita di una nuova epoca: quella della democrazia e della libertà. Non ne parlo come di un auspicio o di un’illusione: mi limito a riferire i segni che osservo. Anche i fondamentalisti dovranno adattarsi a questa nuova fase della storia: perché essere islamista o parlare nel nome della religione non è più una garanzia di giustizia e di uguaglianza. Quello che garantisce la libertà e la giustizia oggi è il controllo dei governi da parte del popolo, i meccanismi di controllo che tutelano dall’abuso di potere. Non c’è altra garanzia. Questa nuova consapevolezza democratica è la prerogativa di questa nuova fase della storia. Io spero che l’Occidente sappia accompagnare nella maniera migliore questo cambiamento epocale.
(«Nova Tempora», febbraio 2011)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano