mercoledì 6 aprile 2011

Vivere in Bielorussia, storie di ordinaria contaminazione. Intervista a Silvia Pochettino

Da Periferia a Periferia - 4
Conoscere e comprendere i tanti luoghi del nostro mondo che provano ad affrancarsi e a risollevarsi dalle mille problematiche, non significa per noi condividere il mal comune. Piuttosto vogliamo fare nostre le sensibilità, il coraggio, l’intelligenza, l’onestà di chi r-esiste in tale disagio. Perché in fondo, noi come loro, sappiamo che la periferia è solo un luogo dell’anima.

Silvia Pochettino, giornalista, dirige da oltre dieci anni la rivista di cooperazione internazionale “Volontari per lo sviluppo” e collabora stabilmente con diverse testate nazionali. Nel 2002 ha ricevuto il Premio nazionale Giornalisti per il sociale. Il suo ultimo libro è Bugie nucleari (ed. Carlo Spera, 2009). L’abbiamo intervistata a proposito della sua esperienza nelle zone della Bielorussia più colpite dal disastro di Chernobyl, nelle quali si è recata in più di un’occasione sulla scia degli studi dei professori Vassili Nesterenko (responsabile dell’Istituto per l’Energia Atomica della Bielorussia) e Yuri Bandazhevsky (direttore del programma di ricerca medica a Gomel). Per chiederle com’è oggi, a 25 anni dal disastro, la vita a Minsk e a Gomel, nel sud della Bielorussia, periferia dell’ex impero russo.

La sua prima impressione una volta giunta lì: un paesaggio lunare o un posto come un altro?
Il posto è molto bello, la Bielorussia ha delle foreste spettacolari ed è un Paese verdeggiante. Non si deve pensare che
gli effetti delle radiazioni si vedano come nei film in cui ci sono mostri dietro ogni angolo. La natura è rigogliosa e il posto è molto bello. Questo spesso inganna: perché sembra che non sia successo nulla e che nulla turbi la quiete di chi ci vive. C’è da dire, d’altro canto, che il Paese è molto povero: si tratta di un Paese prevalentemente agricolo che - in seguito al disastro di Chernobyl - non ha potuto continuare ad esserlo, né ha saputo reinventarsi. Quello che si vede a occhio nudo è solo la crisi economica, dovuta anche alla fine dell’URSS, i cui sintomi sono una povertà diffusa e un tasso d’alcolismo molto elevato. Se ne percepisce la tristezza, anche a causa della cattiva gestione del governo, che lascia ben poca libertà all’espressione individuale.
Quale rischio sanitario esiste? Su quali dati basiamo la nostra analisi?
Quello che ho appreso nel corso delle mie indagini in loco, grazie agli studi dei professori Nesterenko e Bandazhevsky (ora esule, dopo essere stato in carcere per 5 anni a causa della sua denuncia delle conseguenze sanitarie del disastro di Chernobyl). In particolare, Bandazhevsky ha mostrato - con statistiche mediche basate sull’esame di migliaia di casi di cittadini bielorussi - l’esistenza della cosiddetta “cardiomiopatia da cesio”, cioè la sindrome da indebolimento del cuore (ma anche di altri organi, come i reni) a seguito dell’incorporazione di piccole ma costanti dosi quotidiane di Cesio137. Gli studi di Bandazhevsky hanno mostrato inoltre che queste “piccole dosi” sono in grado di indurre malformazioni genetiche nei figli (e cominciamo a osservarne gli effetti proprio oggi, nella generazione successiva a quella di Chernobyl), ma anche deficienza immunitaria, cataratta e perfino il diabete: esistono forme di diabete riconducibili alla radioattività. Ecco la grande scoperta di Bandazhevsky, che gli ha guadagnato l’esilio: esiste tutta una gamma di patologie “nucleari” diverse dal cancro (che è invece associato nell’immaginario collettivo, unico oltre alla leucemia, alla radioattività).
Esistono altri studi internazionali su questi effetti?
Non esistono altri studi internazionali, anche perché intorno all’informazione medico-scientifica legata al nucleare esiste un clima di forte censura. Del resto è ben comprensibile che gli Stati si oppongano a questo tipo di informazione: è infatti già abbastanza problematico per i governi affrontare il pericolo radioattivo in termini di cura dei tumori; mostrare addirittura che il rischio sanitario va ben oltre questo tipo di patologia e si estende potenzialmente a tutta la popolazione, creerebbe delle complicazioni politiche ed economiche impressionanti.
Cosa possiamo affermare ad oggi con certezza assoluta intorno ai danni dell’incidente russo?
Ad oggi nulla può essere affermato con assoluta certezza. I tempi del decadimento atomico e quelli della genetica sono troppo lunghi perché noi oggi, a soli 25 anni di distanza, possiamo fare affermazioni certe. Possiamo affermare, al contrario, che chi sostiene qualcosa con certezza, stia mentendo. A ciò si aggiunga che vengono posti - come dicevamo - notevoli ostacoli alla ricerca medica in quest’ambito: al di là del caso singolo (ed esemplare) di Bandazhevsky, ricordiamo che molti studi scientifici non possono venir pubblicati perché l’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) ne vieta la diffusione (in base a un accordo del 1959, chiamato WHA 12-40, per il quale l’AIEA si riserva il potere di veto in materia). L’AIEA è l’unica struttura al mondo che può porre veto all’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) circa i reali effetti delle radiazioni sulla salute dell’uomo. Questo la dice lunga sulla trasparenza, sulla libertà che ruotano attorno al nucleare. Nel mio libro Bugie nucleari, riedito nel 2010, ho approfondito le implicazioni di natura politica, ideologica ed economica di tutto questo.
Chi ne paga più di tutti le conseguenze?
Ovviamente i bambini. Vediamo oggi che in Bielorussia 1 bambino su 4 ha difficoltà di concentrazione e di apprendimento, o accusa debolezza cronica e problemi con la semplice ginnastica. In più, il numero dei bambini con anomalie nello sviluppo si è triplicato negli ultimi due decenni; si ha un numero anomalo di casi di bambini molto piccoli con problemi cardiaci. Ovviamente, come dicevamo, il dibattito intorno alle cifre e alle correlazioni è molto aperto, e nulla può essere affermato con certezza. Proprio per questo, però, non si può negare l’evidenza di certe irregolarità statistiche, con l’alibi che non è stata ancora dimostrata alcuna correlazione.
È stato affermato che il disastro di Chernobyl ha causato la morte di “sole” 65 persone. Cosa ne pensa?
Torniamo al discorso della “certezza assoluta” e della scarsità di correlazioni. 65 è il numero di persone certamente morte nell’esplosione o durante i soccorsi (tra cui diversi pompieri). A fronte di questa cifra, il responsabile degli aiuti umanitari (che è un’altra agenzia dell’ONU, non un’associazione di ambientalisti) parlava di 9 milioni di vittime. Questo dà la misura dell’incertezza su questo argomento e della poca significatività delle cifre in quanto tali. È chiaro tuttavia che non si possono considerare “vittime” soltanto i morti nell’episodio; basti pensare alle conseguenze sanitarie dei “liquidatori”, cioè quei 500.000 operai russi che hanno lavorato allo smantellamento della centrale di Chernobyl. Di queste persone solo una piccolissima parte è stata monitorata con accuratezza; e quello che ne emerge è che migliaia di loro sono morte con malattie diverse degenerate in un arco temporale brevissimo. Per non parlare dell’enorme crescita delle disfunzioni nei bambini e dell’insolito tasso di sterilità maschile e femminile tra gli adulti.
Cosa fanno le autorità bielorusse per porre rimedio al problema?
Intanto va detto che il disastro di Chernobyl è costato alla Bielorussia delle cifre spaventose, molto superiori al PIL dello stesso Stato. E il Paese resta povero, perché essendo, come dicevamo, un Paese agricolo, si è ritrovato all’improvviso con un terreno del tutto inutilizzabile. È comprensibile che adesso in Bielorussia si respiri un palpabile desiderio di rimuovere l’incidente, di dimenticare. Per cui la politica punta più che altro sulla normalizzazione: si aumentano per legge i livelli di becquerel (unità di misura della radioattività) consentiti nel cibo e nell’acqua, per far mostra che non c’è una contaminazione preoccupante. La politica si preoccupa oggi in primo luogo, magari comprensibilmente, dell’aspetto psicologico della questione. Non è escluso infatti - alcuni studi sarebbero orientati in tal senso - che la disposizione psicologica dei bielorussi incida significativamente sul loro stesso stato di salute. Anche la radiofobia miete vittime.
Chernobyl è un caso chiuso del secolo passato, o un monito alla nostra generazione?
Non si può pensare che sia un caso chiuso, non foss’altro che per i biblici tempi di dimezzamento radioattivo che ancora ci attendono. Da questo punto di vista, anzi, siamo solo all’inizio.
Secondo Lei, cosa risponderebbe un cittadino di Minsk alla propaganda intorno al “nucleare sicuro”?
La menzogna più grande non è quella è perpetrata dalle autorità o dai potentati economici che hanno interesse a nascondere la realtà dei fatti. La menzogna più grande è quella della gente che è costretta a mentire a se stessa per sopravvivere. Come quella donna di Minsk, che viveva da sola in una casa certamente contaminata, intenta a coltivare un terreno pieno di Cesio137 e a mangiarne i frutti, la quale ci disse un giorno: «io non vedo niente, non sento niente, questa “radioattività” sembra non esistere affatto. Le mie patate crescono lo stesso, io le mangio». Poi, dopo una pausa: «non posso mica andarmene a morire di fame in città». In qualche modo la vita continua. Anche in periferia.
(«Nova Tempora», marzo 2011)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano