lunedì 16 maggio 2011

Il telefonino/1

Passiamo le giornate a cercare di convincerci di non essere diventati schiavi della tecnologia, di poter fare a meno - se solo volessimo - della televisione, del computer, perfino del frigorifero, e che gli strumenti tecnologici non fanno altro che offrirci delle comodità in più: potremmo privarcene in qualunque momento, sosteniamo convinti, rimanendo perfettamente noi stessi.
È la tesi che in filosofia viene chiamata della “tecnologia neutrale” - cioè della tecnologia semplicemente aggiunta all’uomo, come un cappello messo in testa, che lascia tutto il resto inalterato (tesi smentita fin dall’inizio della nascita della tecnica, ma da sempre
sostenuta dai suoi fautori: altrimenti ci si dovrebbe chiedere se per caso la tecnologia non rechi con sé anche dei danni, ovvero dei vincoli perniciosi e difficili da rimuovere).

A volte la tecnologia ci semplifica un po’ la vita. Ma ci rende anche meno indipendenti

È il caso lampante del telefonino. L’abbiamo avuto, e più d’uno (ricordiamo che l’Italia è il Paese europeo con il più alto numero di telefoni portatili pro capite, più di uno a testa), magari resistendo fino alla fine e comprandolo dopo tutti gli altri, per snobismo e per il solito adorabile conformismo anticonformista. E la nostra vita è cambiata da subito: non è vero che il cellulare ci dava semplicemente la possibilità di fare e ricevere telefonate nei luoghi più disparati: ce ne accorgemmo la prima volta che ci sentimmo in obbligo di richiamare dopo una chiamata persa. In obbligo, proprio così. Se, pur a casa, non avessimo risposto a una telefonata ricevuta, non sarebbe successo nulla. Ma quella volta fummo obbligati. La volta successiva, non solo richiamammo, ma ci scusammo anche: di non aver potuto rispondere (eravamo in auto, la suoneria era bassa, ecc.). Non solo ci trovammo in obbligo, ma in difetto. Un’altra volta, aspettavamo un amico a un appuntamento e rimanemmo lì ad aspettare inutilmente per ore. Tornati a casa lo chiamammo per chiedere spiegazioni: aveva provato ad avvertirci sul cellulare, ma l’avevamo lasciato a casa... e lì capimmo che - da quel giorno in poi - avremmo dovuto portarcelo sempre appresso, a qualunque costo. Smettemmo di ascoltare la musica in auto, perché ci rimproveravano di non rispondere mai. Smettemmo di dire “Pronto?” in favore del “Dove sei?” (al quale incredibilmente nessuno ha mai pensato di obiettare: “ma mi hai chiamato per localizzarmi?” oppure “la cosa che devi comunicarmi e per cui mi hai chiamato varia a seconda della mia posizione geografica?”). Ma la perdita più grave fu l’atavica facoltà di prendere degli appuntamenti. Una volta ci si accordava e ci si incontrava sul posto; dall’ETACS in poi, invece, già 10 minuti prima dell’orario convenuto arriva puntuale la chiamata: “a che altezza sei?”. Seguita dal fatale ritornello: “quando sei lì mi fai uno squillo”. Ma perché? Non ci si può vedere alla biglietteria della stazione alle sette meno un quarto?
Tutto cambia, e quello che arricchisce in un senso spesso impoverisce in un altro, anche se non vorremo ammetterlo mai. “Chi se ne frega dell’appuntamento?” potrebbe rispondere qualcuno, ma poi ti ritrovi nel centro commerciale di sabato sera che ti sei perso tua moglie chissà dove, senza telefono e il bambino che deve prendere lo sciroppo antibiotico tra pochi minuti. In quel momento vorresti aver concordato prima un luogo di incontro per i casi di emergenza (com’eri abituato a fare non molto tempo fa). E invece, stizzito dall’impotenza, scuoti la mano del bambino incolpevole. Dal canto suo tua moglie, che dovrebbe sentirsi più libera grazie al telefonino, si sta invece crucciando di non averlo con sé (l’ora della medicina si approssima, lo sa anche lei). E tu, che il telefono per giunta ce l’hai, ma non ti serve a niente, imprechi contro l’indisciplina della tua consorte, la solita inaffidabile. Quando capirà che del telefono non si può fare a meno!

(«Il Caffè», 13 maggio 2011)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano