mercoledì 22 giugno 2011

Nuova educazione cercasi. Intervista a Pietro Barcellona

Pietro Barcellona, già membro del Consiglio superiore della magistratura e deputato alla Camera, è professore emerito di Filosofia del diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: Elogio del discorso inutile (Dedalo, 2010); Incontro con Gesù (Marietti, 2010); Viaggio nel Bel Paese. Tra nostalgia e speranza (Città aperta, 2010); (con F. Ventorino), L’ineludibile questione di Dio (Marietti, 2010); L’oracolo di Delfi e l’isola delle capre (Marietti, 2009); Il furto dell’anima. La narrazione post-umana (Dedalo, 2008). Con l’Altrapagina ha pubblicato: La crisi della democrazia (con G. Chiesa, R. Mancini, A. Papisca); La crisi dell’educazione nell’epoca del neoliberismo (con M. Lodoli, B. Amoroso, A. Chieregatti); Modernità e mercato (con S. George e G. Mattioli).

La moralità è una questione privata o pubblica, cioè politica?
Questo è un problema che si presterebbe alle risposte più disparate. Gli uomini stanno insieme normalmente sulla base di regole condivise, fondamento della coesistenza condivisa demandata a certe istituzioni. D’altro canto, ogni essere umano diviene adulto acquisendo anche una normatività personale, basata sull’esperienza avuta con i genitori, con gli altri, la scuola ecc. Questa normatività non è categorizzata in “politica”, “morale”, “giuridica”, ma è una morale sociale generale. Ovviamente il collettivo umano può dar luogo a forme anche degenerate di normatività, tipicamente quelle in cui un gruppo si arroga il diritto di legiferare per tutti appiattendo le esigenze di tutti sulle proprie. La salute di una collettività umana si misura invece dal grado di allineamento tra la normatività sociale inveterata negli individui e quella codificata dalle istituzioni (e da quanto sia al contempo efficace non solo il rispetto della maggioranza, ma anche la tutela delle tante minoranze). Ma tutte queste considerazioni, per quanto importanti, trovano poco spazio all’interno del dibattito comntemporaneo, basato invece sull’approfondimento delle distinzioni cristallizzate storicamente, come quella ad esempio tra diritto e morale, che è una distinzione storica, non ha il carattere di una “legge di natura” e avrebbe anche potuto non presentarsi affatto in questi termini.
Cosa ci insegna questo oggi?
Possiamo servircene ad esempio per comprendere l’impossibilità di affrontare il “fenomeno Berlusconi” con una presa di posizione moralistica: Berlusconi non può essere criticato a questo livello da un punto di vista morale, perché egli incarna quello che un ampio strato della popolazione italiana è o sogna di essere - l’italiano medio. Non è possibile fare un discorso su Berlusconi senza analizzare il senso comune dell’italiano della nostra epoca. L’anomalia di un settantenne gaudente che passa le serate fra orge e balletti non può essere affrontata moralmente; si tratta di un problema antropologico. Sappiamo dall’esperienza storica che la morale personale degli uomini è mutevole e che chiunque d’improvviso può trasformarsi in nazista, in gaudente, in aguzzino. Gli argini a queste derive non sono quelli di una morale codificata, ma l’educazione collettiva e la partecipazione personale alla vita del gruppo.
Come dire che in questi casi la moralità passa un po’ in secondo piano.
In realtà non amo tutte queste disquisizioni sulla morale; e non perché sia convinto che non esista una dimensione etica (certo che c’è, io sto parlando e mi assumo la responsabilità etica di quello che dico); bensì perché mi sembra molto riduttivo impostare il problema della nostra vita collettiva sulla dialettica tra morale e politica. Perché per certi versi entrambe le sfere sono sfere sociali, vissute collettivamente attraverso le pratiche, che sono sempre il fondamento ultimo della vita di un gruppo. Se diciamo che non bisogna rubare, e poi rubiamo tutti i giorni, il nostro proposito è ben poca cosa. A me sembra che il punto primo a cui bisogna sempre tornare sia l’educazione collettiva, unica in grado di produrre significati coerenti con la libertà e l’autonomia concrete.
Crede che ci sia un legame tra i risultati elettorali delle recenti amministrative e una “voglia di moralità” dei cittadini?
Non direi proprio. Questi risultati sono effetto di un bisogno di riappropriazione dello spazio creativo, di un mondo comune, usurpato dal politichese. Si tratta di forze che stanno mettendo in campo una nuova energia nata dalla realtà viva dei gruppi sorti più o meno spontaneamente. La volontà di rappresentanza popolare di gran parte di questo Paese (che per anni ha subito la seduzione perversa di Berlusconi e l’arida nomenclatura delle oligarchie dei partiti) è esplosa in modo imprevedibile. Ma non si è trattato soltanto dell’espressione della voglia di liberarsi dall’incubo di Berlusconi (ormai avviluppato nel suo delirio persecutorio verso tutti i magistrati, i politici, i giornalisti e persino gli alleati); non era cioè soltanto un risultato contro, ma l’inizio di una nuova marcia verso la presa diretta della parola politica da parte di grandi pezzi di società che hanno subìto sempre più pesantemente il dominio di élite politiche autoreferenziali e indifferenti alla vita quotidiana.
Presenza dunque, non moralità.
Ma non è certo cosa da poco. La propria creatività, di cui si diventa consapevoli nell’imparare a servirsene, può essere la migliore delle soluzioni politiche. Se un ragazzo di 20 anni riprende in mano il proprio potere di immaginare e di creare e lo mette insieme ad altri al servizio di una trasformazione, ebbene, ciò è molto più importante di una predica moralistica.
Vede un rapporto particolare tra politica e moralità in Italia, rispetto agli altri Paesi europei?
Veramente non è che la veda troppo. Noi abbaimo avuto la specificità di questo personaggio che a una certo momento della storia italiana ha colto un umore diffuso tra la gente, una specie di bisogno al contempo di un anestetico e di un euforizzante, che lenisse seppur illusoriamente gli affanni e promettesse felicità e godimento alla portata di tutti. Questa è una specificità che andrebbe esaminata nell’ambito di uno studio sulla storia d’Italia, ma dal punto di vista della moralità pubblica non mi pare tuttavia che in Italia si stia peggio, ad esempio, della Francia.
Cosa potrebbero o dovrebbero fare i partiti per rinforzare la moralità della politica italiana?
Ho scritto un articolo per «la Sicilia» che affronta proprio questo argomento, commentando in dettaglio il risultato delle elezioni amministrative, esito che ho attribuito all’esplosione di una carica di energia creativa soprattutto da parte di chi non ha voce o visibilità in questo mondo. Persone che hanno trovato il modo di metters a lavorare politicamente insieme, in proprio, senza seguire i partiti. Mi pare che siamo di fronte a una novità in questa fase, di fronte a una politica nuova che trascina i partiti invece che esserne trascinata.
Oggi, nel 2011, il binomio “politica e moralità” è un ossimoro, o un’urgenza?
Io penso che l’urgenza sia ancora una nuova educazione. Questa tra politica e moralità è un’opposizione di comodo, perché fa comodo dar sempre la colpa di tutto alla politica, quando sarebbe invece necessario alimentare educativamente quella normatività personale-sociale di cui parlavo all’inizio, l’unica che può portare ad avere più o meno in spregio un certo tipo di politica e ad operare in direzione di una vita comune.
Lei pensa alla scuola, dunque.
Certo, in primo luogo. Non si può addossarre tutto alla politica, per quanto degenerata e per quanto monopolizzata da ceti che la utilizzano a proprio beneficio.
Uno dei suoi ultimi libri si intitola Viaggio nel Bel Paese, tra nostalgia e speranza. In che maniera l’Italia le evoca questi due sentimenti?
Io ho vissuto esperienze molto positive, come la grande ricostruzione del dopoguerra, in cui c’era un fermento e una voglia di fare che dava davvero l’impressione che si potesse costruire il mondo come si desiderava. Così come ho assistito al declino di tutte queste aspirazioni e all’appiattimento di tutti gli ideali. Ecco che in me vive ancora la nostalgia di quegli ideali che ho vissuto da giovane e cui oggi non assisto più, ma non ho perduto la speranza che i giovani possano ridar vita a quell’entusiasmo. L’Italia per me rimane dolcemente attanagliata fra questi due sentimenti.
(«l'Altrapagina», giugno 2011)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano