venerdì 2 settembre 2011

Azioni&Natura umana. Intervista a Leonardo Caffo

Azioni&Natura umana (FaraEditore, 2011), l’ultimo libro di Leonardo Caffo, riassume nel titolo il proprio proposito: coniugare i fondamenti dell’agire umano (filosofia dell’azione) con quelli di un’analisi che vede la natura umana come essenzialmente sociale. In una prospettiva che inquadra il problema da sinistra (con il supporto delle letture di autori come Foucault, Derrida, Agamben), l’autore intende porre in risalto la tesi marxiana secondo la quale “l’uomo è ciò che fa”, in particolare ciò che fa “con gli altri”. Argomento classico, ma affrontato in maniera originale con gli strumenti delle due “nemiche per la pelle”: la filosofia analitica e quella continentale, una volta tanto in dialogo per dar luogo a una sintesi fatta non per gli specialisti ma per “i molti”, alle prese con le domande, i problemi, le necessità concrete di tutti i giorni.

Azioni&Natura umana, un libro di “filosofia dell’azione”. Di che si interessa questa disciplina oggi?
In realtà vorrei, sin da subito, chiarire che ho cercato qualcosa di leggermente diverso. Non è
migliore, questo “qualcosa”, anzi forse è peggiore, ma è sicuramente diverso. La filosofia dell’azione da Harry Gordon Frankfurt a Donald Davidson, passando per una miriade di altri autori, concentra una parte essenziale delle sue riflessioni sulla definizione ontologica di azione, distinguendo quest’entità da movimenti o eventi, e cerca di capire da cosa scaturiscano le azioni, fino a che punto filosofia e neuroscienze debbano andare di pari passo o, ad esempio, come e perché stabiliamo la responsabilità di un agente – agenzia – nei confronti di un determinato atto. David Velleman, per rispondere alla domanda che mi pone, sostiene che la filosofia dell’azione debba rivelare ciò che crea la differenza tra un mero movimento corporeo ed un’azione. Il libro che ho scritto, umilmente e probabilmente sbagliando chiede, ma fino a che punto ha davvero senso parlare d’azioni entro il sistema in cui viviamo? E la risposta, lunga qualche centinaio di pagine, è ciò che il lettore si troverà ad affrontare se comprerà questo saggio.
Su quale terreno le filosofie cosiddette “analitica” e “continentale” possono incontrarsi fruttuosamente, senza che ogni scambio di battute si trasformi in un duello all’ultimo sangue?
Rispondo in modo secco e deciso, con un’unica parola: sul terreno dell’intelligenza. Parliamoci chiaro, la dicotomia analitico – continentale è una parziale idiozia. Direi che esiste filosofia buona e non buona, punto. Credo che in filosofia dell’azione la filosofia analitica abbia fatto, come sempre dal resto, dell’astrazione dagli specifici contesti storici il suo più grande limite. E credo, di contro, che la filosofia debba rimanere ancorata ad uno sguardo che sia tanto storico che scientifico. Analizzare un argomento, per le sue intrinseche proprietà di coerenza logica, o fandatezza delle premesse, non ha valore conoscitivo autentico. Almeno, io non conosco meta - argomenti per nobilitare questo uso degli argomenti. Mi spiego. Sarebbe come se i fisici, per studiare il fenomeno “luce”, si avvalessero del loro modo di vederla, e dei limiti della loro percezione. Ma è chiaro che sapere che non “processiamo” contraddizioni o serie soritiche non ci dice nulla su una potenziale esistenza, in Natura, tanto di uno che dell’altro fenomeno. Quando indaghiamo le azioni mi sembra obbligatorio osservare, almeno in parte, dove l’uomo agisca. Altrimenti, tutto il resto, perde di significato. Qui, dove i problemi diventano qualcosa da analizzare in quanto problemi, e non in quanto specchi di preconcette impostazioni filosofiche, si possono incontrare visioni diverse del mondo.
Lei aspira a una filosofia “popolare”, aperta a una comprensione generale e non settoriale. Ritiene possibile una filosofia (e non una mera “divulgazione filosofica”) aliena da specialismi e tecnicismi, insomma, una “filosofia per la gente”?
Se la filosofia non è per la gente, non serve a nulla. Come diceva Deleuze, nel suo abecedario, scrivere per qualcuno, significa scrivere al posto di quel qualcuno. Credere che se una cosa non sia difficile sia poco interessante è, consentitemelo, davvero ingenuo. Ritengo, con umiltà, che ogni problema filosofico, anche il più complesso, vada esteso ad ogni persona curiosa di comprendere la realtà che lo circonda. Io, tu, e chiunque altro è parte della categoria “gente”. Se la filosofia non è per noi, per chi è?
Propone - in alternativa al secolare “rasoio di Occam” - l’utilizzo di un metodo “inclusivo”. Di che si tratta?
Non saprei dare una risposta esaustiva, in queste poche righe. Credo che non ci siano buoni argomenti, e non sono il solo a crederlo, per considerare il metodo di semplificazione coatta il miglior metodo possibile. Spesso, a furia di rendere semplice le cose, nel senso della “parsimonia ontologica”, si semplifica tutto. Molte teorie che hanno cercato di descrivere la complessità dell’esistenza attraverso l’assunsione di poche entità, o spiegazioni più semplici, hanno fallito. Penso alla teoria “animale – macchina” di Cartesio, talmente folle da vedere negli animali non umani degli automi, o al fisicalismo più bieco che a furia di eliminare tutto rende il mondo un’immensa palude fatta di corpi, e nient’altro che corpi. Includere signfica aprirsi ad una filosofia senza struttura, in senso nobile, in grado di decostruire la realtà prima di edificare false teorie, che vaglino solo il controllo di una logica umana ed antropocentrica. Poi, vuol dire anche qualcosa in più, ma rimando ancora una volta al libro per esigenze di spazio e nella speranza, concreta, che qualcuno animato da autentica curiosità lo legga.
Sostiene che per natura l’uomo tenda alla cooperazione. Come si concilia questo con l’evidenza di un mondo fondato sulla competizione?
L’eccezionalità della cooperazione è paradossalmente confermata dalla frequenza dei conflitti interni nelle comunità umane: la guerra sembra essere qualcosa di naturale ma non dal punto di vista umano – ovvero non è parte della natura umana – ma dal punto di vista della complessità del sistema natura. Fare la guerra risulta per l’uomo attività di garanzia della nicchia ontogenetica, entità di cui discuto nel testo, ed infatti, come sostiene Tinbergen «dal momento che la lotta è dannosa per l’individuo […] è di vitale importanza che essa sia limitata a quelle circostanze in cui serve realmente al conseguimento delle sue specifiche funzioni». Sia negli animali umani, che non umani, la lotta è circoscritta ad eccezioni ben specifiche in cui, il conflitto violento, sembra caratterizzarsi come l’unica alternativa possibile per la salvaguardia della propria nicchia di sopravvivenza. Le guerre possono esistere solo perché entro il capitalismo la povertà di stimoli si è fatta inesorabile, e perché altri decidono per noi contro chi combattere, raccontandoci spesso che la nostra nicchia ontogenetica subirebbe dei vantaggi da potenziali vittorie. Anche in questo caso assistiamo ad una radicale biforcazione tra natura umana e cultura, in cui la patologia (conflitti occasionali) diventa normalità (guerre perenni, “umanitarie” ecc.).
Il libro si apre con una dedica “a quella cosa che avrei dovuto fare, ma poi non ho fatto”. Un indizio per il lettore curioso?
Diciamo che si riferisce a tutte quelle volte in cui, ognuno di noi, pensa di trovarsi di fronte ad un bivio. Si sceglie sempre qualcosa liberamente, e si rimpiange d’averlo fatto. In quel “liberamente” risiede una difesa del libero arbitrio articolata, attraverso Wittgenstein, all’interno del volume. La dedica è speranza che si sia, davvero, ciò che si può fare.
Ha pubblicato di recente un altro libro, Soltanto per loro (Aracne, 2011). Azioni&Natura umana è nello stesso solco, o è un cambio di prospettiva?
La prospettiva cambia, ma non ancora radicalmente. Pian piano mi allontano da qualcosa e mi avvicino a qualcos’altro. Credo sempre meno nella ragione come misura di tutte le cose. Anzi, vedo nella razionalità alcune gravi colpe dell’umanità tutta. Ma sono troppo giovane, e per adesso mi devo bloccare altrimenti le critiche saranno sempre più dei complimenti. Nella ricerca che ho appena iniziato, e che mi porterà via molto tempo, credo sarà più chiaro l’obiettivo a cui cerco d’arrivare: un ritorno all’animalità – alla nuda vita animale – per rivedere il bene e ri – emergere da questo schifo assoluto che chiamiamo “società civile”.
Ha anche annunciato la prossima uscita, per l’editore Zona, di un romanzo. Può darci un’anticipazione?
Esce in Ottobre, per Zona, agguerrito editore fiorentino, in cui mi troverò in ottima compagnia, un breve romanzo sulla fine del mondo. Uno psicanalista contro un prete, e la fine di un mondo ad uso e consumo umano. Poi, nel buio di quell’ultimo giorno, si sente una voce di redenzione e sarà proprio il lettore, sul finire della narrazione, a svolgere un ruolo fondamentale per il prosieguo della trama.
(«Pagina3», 2 settembre 2011)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano