lunedì 12 settembre 2011

Ecco perché la rete fa paura. Intervista a Dario Salvelli

Dario Salvelli è consulente per progetti di comunicazione digitale e dal 2002 tiene un blog all’indirizzo www.dariosalvelli.com. Ha collaborato con Roberto Saviano, Nòva 24 de «Il Sole 24 Ore», Wired Italia, Excite, Tekneco. Nel 2007 ha organizzato il Free Burma Day, azione di protesta online dei blogger di tutto il mondo contro il regime di Myanmair e sta attualmente scrivendo un libro su questi temi. L’abbiamo intervistato a proposito del ruolo di internet nelle recenti rivoluzioni, quella libica in particolare.
Qual è stato (ed è) il ruolo di internet nelle recenti rivoluzioni nordafricane?
Informare, informare e ancora informare. Sia all’interno sia all’esterno, in modo da aprire la partecipazione sociale e creare un universale e solidale clima con le ragioni delle rivolte. È questo uno dei ruoli più importanti che hanno avuto Internet ed i Social Network (di seguito SN, N.d.R.): andare oltre la censura imposta dai regimi che hanno provato a tagliare la Rete (in molti casi sono riusciti ad isolarla), mossa che non ha fatto altro che alimentare il dissenso internazionale. Il passaparola online e offline dei popoli nordafricani ha creato movimenti, piccoli gruppi, i cosiddetti “Digerati”, opinion leader più vicini alle tecnologie che si sono uniti riuscendo ad arrivare dove i giornali non potevano, creando un movimento d’opinione così forte da portare le ragioni delle proteste in un processo mainstream. I media, anche quelli
più disattenti, a quel punto non potevano più snobbarli. E con loro ovviamente i governi dittatoriali.
In questo la Libia mostra qualche particolarità?
La primavera di popoli come quello libico è stata complicata: il regime di Gheddafi ha esercitato per quarant’anni un totale controllo sui media, basti pensare al quotidiano «Al Haqiqa» (in arabo “la verità”) che solo ora sta cercando di tornare alla ribalta ma che prima del 1969 era quello più diffuso in Libia. E insieme a questo anche altri sei giornali, stazioni radio e canali TV stanno tornando alla luce. In Libia il taglio di Internet è stato duro e ha coinvolto anche la telefonia mobile rendendo così difficile usare molti servizi web: così il Wall Street Journal ha raccontato come un ingegnere di 31 anni Ousama Abushagur abbia usato alcune tecniche per aggirare le restrizioni dei ponti radio e delle centrali controllate da Gheddafi riuscendo a creare grazie a dei link satellitari una rete mobile alternativa, Free Libyana, che i libici hanno usato per inviare e ricevere telefonate e collegarsi ad Internet.
Cos’è il cosiddetto “cyber-attivismo”?
Usare la Rete ed i suoi strumenti per conversare, partecipare, organizzare azioni di protesta e informare è già fare attivismo e andare oltre il semplice clic. Documentare con foto, con il proprio blog e con Twitter non sostituisce il giornalismo del reporter di guerra ma può essere una prospettiva a volte autentica (anche se difficile da dimostrare) e altrettanto potente e pericolosa. Se dietro non c’è una causa per la quale valga davvero la pena “attivarsi” come la lotta ai regimi dittatoriali è impossibile che dal singolo possa nascere in Rete qualcosa di importante che svegli le menti e proponga un concreto processo di cambiamento nei popoli e nelle istituzioni.
Quanto influisce l’attività degli internauti sull’opinione pubblica internazionale?
Ci domandiamo: è più influente la Rete con Wikileaks, i SN ed i suoi opinion leader oppure la diplomazia, servizi segreti inclusi? L’impatto è certamente rilevante soprattutto per la comunità internazionale che si interessa di politica estera anche quando non ci sono in ballo motivi economici. Si sviluppa comunque subito un umano senso di solidarietà nei confronti delle persone che soffrono situazioni difficili come quelle recenti dei popoli nordafricani: questo sdegno si riversa attraverso post sui blog, approfondimenti, l’effetto cosiddetto “virale” di foto e video poi è spaventoso ed è in grado di muovere anche le coscienze più indifferenti. Contro il blackout dei regimi ad esempio si sono raccolti tanti soldi online attraverso siti come Avaaz per acquistare modem e sistemi di ricezione cellulari, trasmettitori radio in modo da consentire la trasmissione in streaming di video. È questa necessità di raccontare ciò che succede che c’è da entrambe le parti ad essere in grado di avvicinare i popoli e creare anche una inevitabile spinta politica e sociale.
Blogging, social networking, citizen journalism: quali sono le forme dell’attivismo più utilizzate?
Il giornalismo partecipativo ha diverse declinazioni, cambiano gli strumenti ma alla fine ciò che conta sono i contenuti che si veicolano: la comunicazione in tempo reale con foto e video avviene attraverso SN come Twitter, Facebook, Livestream Ustream. I post dei blog invece sono dei veri e propri diari pieni di racconti e spunti che uniscono alla cronologia dei fatti dei mashup realizzati con le mappe di Google. Nel movimento spagnolo degli indignati, l’M15 l’82,28% degli intervistati da Gather Estudios ha usato i SN come strumento principale per tenersi aggiornato con più di 50 punti di differenza rispetto ai media tradizionali: i SN sono stati importanti per partecipare alle mobilitazioni e conoscerne i valori e le motivazioni.
L’attivismo telematico è realmente alla portata di tutti o richiede competenze specifiche che non tutti possono permettersi?
Creare un blog o aprire un profilo Twitter e Facebook è ormai facilissimo: un po’ più complicato invece inviare foto o video di buona qualità ma i moderni smartphone hanno già al loro interno applicazioni dedicate a questo lavoro da reporter dunque non è necessaria una conoscenza tecnica di base. Più complicato invece usare la Rete in quei regimi che la tagliano e la censurano: in questo caso ci vogliono conoscenze specifiche ed è necessario usare valigette dei dissidenti. Come quella segnalata dal NYT: http://www.nytimes.com/2011/06/12/world/12internet.html
La Libia ha oscurato mesi fa la connessione a internet dell’intero Paese per 6 ore. Perché il potere ha paura della rete?
In alcuni casi la rete internet libica è addirittura più veloce di quella italiana almeno secondo i dati di Netindex. Controllare i social media e rendere le comunicazioni difficili in un popolo che è in sommossa è fondamentale: non solo per la diffusione delle informazioni ma anche per gli eventuali aiuti umanitari, per incrinare lo spirito di partecipazione condivisa.
Pare che la Nato abbia usato Twitter come fonte per individuare gli obiettivi libici da bombardare: è davvero possibile secondo Lei prevedere i movimenti delle truppe di Gheddafi grazie agli alert che gli insorti pubblicano su Twitter e YouTube?
Ivo Daalder, ambasciatore USA presso la NATO, usa ogni giorno Twitter e come lui tanti altri esponenti e diplomatici. Alec J. Ross, Senior Advisor per l’innovazione di Hillary Clinton, ha dichiarato come il Dipartimento di Stato USA durante le rivoluzioni africane sia stato attento all’enorme flusso di informazioni e messaggi sviluppato attraverso i SN. C’è ovviamente un problema riguardo l’affidabilità di questi contenuti e messaggi che possono essere fasulli o pilotati e vanno opportunamente vagliati.
Del resto sia Gheddafi sia l’Alleanza Atlantica pare si avvalgano di strumenti come Google Earth e applicativi in rete per l’orientamento geografico.
Questi ed altri strumenti relativi alle mappe e al tracciamento vengono utilizzati in tempo reale ma spesso non sono tecniche accessibili a tutti gli utenti. Google Earth è usato anche per costruire mappe condivise, depistare i nemici o conservare informazioni su eventuali attacchi: in campo militare qualsiasi espediente è buono per sorprendere il nemico.
Quanto sono affidabili le informazioni reperibili in internet (il recente caso del falso “Amina” mette in guardia al riguardo)?
Come dicevamo, è difficile verificare le informazioni, ma questo vale sia per Internet sia nel mondo offline, ammesso abbia ancora senso fare una divisione. Basarsi su fatti, verità oggettive che si possono desemplificare in informazioni che sono raccontate e non delle teatrali messe in scene di episodi. In un contesto del genere esperimenti come Storify aiutano ad aggregare le storie ed a metterle a confronto: in Italia un gruppo di blogger con il progetto 140nn (http://l40nn.altervista.org/blog/) sta provando a fare social media reporting valutando le notizie che arrivano dalla Rete e raccontando in tempo reale o con approfondimenti ed analisi attraverso le voci dei diretti interessati.
L’agenzia internazionale «Committee to Protect Journalists» ha stilato il decalogo del perfetto “cyber-dittatore”. Di che si tratta?
È una lista di strumenti utilizzati dai dittatori che opprimono i popoli moderni con strategie e tattiche antiche quali: intimidazione diretta, cyber-crimine, controllo dell’infrastruttura di Rete e censura mirata. Si va dal blocco di quella parte della Rete sgradita al governo, attraverso la condanna di software che eludono la censura (come ad esempio Tor), al reindirizzamento di siti web mal visti su altri creati ad hoc. Negare totalmente l’accesso a Internet se non da luoghi pubblici come avviene a Cuba, negare la possibilità di provider privati che offrano una connessione, attaccare informaticamente siti di attivisti presenti fuori dai confini nazionali, spiare i computer di giornalisti e cittadini utilizzando dei malware che fanno spear phishing, arrestare e condannare blogger o usare la violenza fisica sui reporter.
In definitiva, è veramente possibile pensare di fermare una rivoluzione tramite la censura di internet?
Le rivoluzioni partono dalle persone e da un senso comune di rivalsa e malcontento: censurare o provare a controllarle è possibile ma inutile e controproducente. Così come è praticamente impossibile esportare in una nazione un modello di democrazia attraverso Internet, la cosiddetta e-democracy. Attualmente ci sono più di 2 miliardi di persone connessi online di cui più di 1 miliardo presenti e attivi in diversi SN (Facebook, Twitter, Qzone e tanti altri): è possibile pensare di fermare questa massa di persone con la forza tramite la censura? Internet apre le menti, favorisce le rivoluzioni e le differenze. Quei dittatori che pensano di giocare al domino si sbagliano: se si colpisce una voce tutte le altre cercano di stare in piedi per sostenerla.
(«l'Altrapagina», settembre 2011)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano