sabato 14 gennaio 2012

La Chiesa che non capisco/3

L’ultima volta parlavamo di don Vittorio, parroco di Casapesenna, che il giorno dopo la cattura del boss camorristico Michele Zagaria si è messo a parlare - durante l’omelia della Messa dell’Immacolata - dell’importanza di fare il bene nella propria vita. In molti sono rimasti esterrefatti (per non dire turbati) dalla curiosa omissione, soprattutto in un momento in cui tutte le personalità del mondo politico si erano dichiarate unanimemente, a destra come a sinistra, felici dell’avvenimento. Don Vittorio replicava ai giornalisti che “alla gente non servono comizi: bisogna parlare alle coscienze individuali” (si può vedere un’intervista a don Vittorio in internet, a questo indirizzo: http://vimeo.com/33446408).
Ora, io non faccio il prete. E trovo detestabili tutte quelle persone che di punto in bianco, di qualunque cosa si stia parlando, pretendono di saper fare tutto meglio degli altri (prestando il fianco alla celebre battuta di non so più chi: “è un peccato che tutti quelli che possiedono le soluzioni ai gravi problemi di questo Paese siano troppo impegnati a tagliare i capelli o a guidare il taxi”). Però non sono neanche uno che vive sulla luna, e qualche cosa del cristianesimo la capisco anche io. Perciò - nell’evidente impossibilità (e tanto meno con l’intenzione) di mettermi al posto di don Vittorio - vorrei limitarmi a dire la mia su delle cose che in chiesa, al catechismo e sì, durante le omelie, mi sono state insegnate e ripetute.

Pretendere di parlare all’individuo di fronte a fatti di enorme portata collettiva è ambiguo e rischioso. E troppo vicino all’omertà

Il cristianesimo non si accontenta di “parlare all’individuo”, ma ha una dimensione comunitaria molto forte, fino al vincolante (la Messa domenicale comunitaria, ad esempio, è un obbligo per il cattolico, non una “scelta individuale”). Fondamentale nella pedagogia e nella morale cattolica il valore dell’esempio: affinché tutti - vedendo pubblicamente “come si esercita il bene” - possano trarne giovamento. Comunitariamente, sempre durante la Messa, si confessano pubblicamente i propri peccati: “per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa”. I più importanti momenti sono tutti pubblici: non si amministrano sacramenti (battesimo, cresima, comunione, matrimonio...) senza l’assemblea. E tutto questo senza voler arrivare ai ben più discutibili usi mediatici che si fanno del pulpito (in occasione ad esempio delle consultazioni elettorali).
A ben vedere, il ruolo riservato dal cattolicesimo alla coscienza individuale è fondamentale, ma minimo se paragonato a quello assembleare. Proprio quell’8 di dicembre, quando don Vittorio ha rinunciato a parlare di camorra dall’alto del suo pulpito, non ha tuttavia rinunciato a parlare - d’altro - da quello stesso pulpito. Non ha mica parlato alle coscienze individuali! Ha parlato al popolo di Dio, lì riunito... ma ha parlato d’altro. In tal modo, né l’assemblea né i singoli hanno potuto trarre insegnamento dalla cattura di Zagaria. So che è facile pretendere dagli altri che si parli con coraggio e in spregio del pericolo, mentre ci si guarda bene dal farlo in prima persona; non di meno quel discorso, che continuo a non capire, mi sembra troppo vicino all’omertà. Quella cosa, cioè, che non combatte la camorra, né individualmente né socialmente. Quella cosa, cioè, che la camorra ama.

(«Il Caffè», 13 gennaio 2012)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano