venerdì 20 gennaio 2012

Quel razzismo strisciante che dal fascismo è arrivato fino a noi. Intervista a Marco Revelli

Marco Revelli, storico e sociologo italiano, figlio del partigiano Nuto Revelli, insegna Scienze della Politica presso l’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”. Fondatore e membro di Lotta Continua, collabora con il quotidiano «il manifesto». Ha scritto numerosi libri con Laterza, Fazi, Chiarelettere, Einaudi. La sua ultima opera è Poveri, noi (ed. Einaudi, 2010).

Dopo Torino, Firenze: un altro episodio di razzismo, stavolta con due vittime.
Si stanno moltiplicando in modo davvero preoccupante episodi come quello gravissimo di Firenze, che ha avuto delle vittime, ma non meno grave quello di Torino, con un vero e proprio pogrom che per le sue caratteristiche a mio avviso è come segnale sociale altrettanto preoccupante di quello di Firenze. Cosa succede? Succede che la nostra vita civile si imbarbarisce, almeno in alcuni suoi settori. Ma in realtà, a voler essere sinceri, un atteggiamento razzista in Italia è sempre sopravvissuto sotto traccia, soprattutto negli strati meno acculturati: la tendenza a stigmatizzare i costumi e i comportamenti di interi gruppi culturali o etnici è un brutto vizio che ci portiamo dietro dal periodo del fascismo.
È soltanto incapacità di liberarsi del passato?
Be’, quella forma di razzismo lì, che era stata bandita a lungo dal discorso pubblico, dalla sfera pubblica, tuttavia è sempre sopravvissuta negli intertizi della chiacchiera quotidiana, delle discussioni da bar, dei circuiti di comunicazione bassi. Negli ultimi 10-15 anni è poi comparsa una forza politica - la Lega nord - che ha sdoganato quegli atteggiamenti, che ha “quotato” quei cattivi sentimenti alla Borsa della propria politica, che ha accreditato comportamenti simili facendone un oggetto di consenso, addirittura con ruoli di governo. Dico la Lega perché è “l’imprenditore politico” più rilevante, ma anche la Destra di Storace o Forza Nuova sono tutt’altro che lontani da atteggiamenti xenofobi. Forze che sono confluite negli ultimi anni nella maggioranza di governo. Non dovremmo dunque stupirci di quanto accade.
Ma il male non viene tutto dalla politica.
Dal canto suo, la crisi economica ha prodotto l’accelerazione a cui stiamo assistendo, anche se ampi strati sociali hanno cominciato a impoverirsi ben prima di quest’ultima crisi. L’Italia è in declino non dal 2008, ma dalla seconda metà degli anni ’90: fasce un tempo appartenenti al ceto medio, o al mondo del lavoro garantito, hanno visto gradualmente venir meno il proprio potere d’acquisto e le proprie sicurezze, in un contesto nel quale fino a ieri il racconto prevalente era un altro, era il racconto del Paese del benessere, del consumo coattivo, dell’Italia quinta o sesta potenza economica mondiale. Slogan che venivano proclamati dai palazzi del governo, dalla grande stampa, dalla pubblicità, in un mondo nel quale la rappresentazione è quella del regno del benessere, mentre l’esperienza quotidiana delle famiglie è quella delle difficoltà dure del vivere, di chiudere il bilancio a fine mese.
Fino all’inevitabile insorgere della violenza.
Perché in questa forbice tra il racconto e l’esperienza maturano i risentimenti, l’odio, la voglia di rivincita, il bisogno del capro espiatorio. Una volta il conflitto redistributivo avveniva nel confronto in campo aperto tra il mondo del lavoro e l’impresa - e tutto sommato le cose funzionavano. In assenza di quel conflitto verticale, tutto si scatena all’interno di quelli che io chiamo conflitti orizzontali, col proprio vicino, col proprio simile, o se possibile, con chi sta un gradino più sotto. La massa di coloro che perde possibilità e diritti tende a recuperare l’autostima e l’immagine di sé presso coloro che stanno sotto, creando dei non uomini, dei non cittadini, meccanismo che abbiamo conosciuto nella Repubblica di Weimar - dell’Underman, del sotto-uomo - oggi il sottouomo è l’immigrato, il lavavetri, il barbone, colui che dà l’immagine di una povertà assoluta che noi temiamo ed esorcizziamo attraverso riti anche tribali, anche nella forma del pogrom, appunto.
Sembrerebbe dunque un problema non solo italiano, ma internazionale.
Sì, è un brutto veleno che serpeggia per l’Europa, che non è esente da tutto ciò. Noi siamo stati così presi dalla nostra crisi che non siamo stati attenti a cosa succede nel resto d’Europa: in Ungheria, ad esempio, ci sono al governo fazioni fortemente attraversate da venature razziste e xenofobe - rischio corso anche dai Paesi nordici, è quello che avviene in Belgio e in parte in Francia. Si teme possa avvenire anche in Germania, dove questi sentimenti sono stati finora tenuti a freno dal senso di colpa per quello che è avvenuto 70 anni fa, ma se la crisi dovesse aggravarsi io temo che ci sarebbe anche lì il terreno fertile per esperienze di questo tipo.
Non si tratterebbe dunque né di gesti di squilibrati isolati, né di una strategia deliberata.
Per Firenze è stata sostenuta la tesi dello squilibrato isolato anche se isolato lo era fino a un certo punto, perché frequentava ambienti dell’estrema destra ed era riconosciuto e accettato da molti di questi, e purtroppo la cosa che più colpisce allo stomaco è che il gesto atroce che è stato commesso ha trovato in internet degli apologeti e dei sostenitori, se non dei seguaci, proprio presso quegli ambienti. Una cosa orribile, agghiacciante. Per Torino invece si è trattato di strati della popolazione molto vulnerabili (e molto vulnerati) che hanno dato vita a quei gesti criminali. Significativo l’identikit degli arrestati: un pensionato di 57 anni e un giovane disoccupato di 20.
C’è una matrice politica dietro questi fatti? Una destra fascista italiana, o peggio transnazionale? Si può ricondurre tutto alla povertà e al rancore?
Diciamo che quello è un bacino nel quale pescano alcuni “imprenditori politici” (li chiamo così), spregiudicati, cinici, che appartengono alla variegata galassia delle destre di cui però la parte del leone diciamo la fa la Lega: è la Lega che ha “virulentizzato” questo bacino di odio, catalizzandone le energie, sdoganando i linguaggi estremi, dando una copertura e spesso anche innescando comportamenti (ricordiamo che a Torino un alto esponente della Lega guidò un corteo che incendiò un insediamento e produsse danni strutturali a un insediamemto). A Torino la Lega non ha speso una sola parola per stigmatizzare il pogrom; anzi, il suo linguaggio ha alimentato gesti come quello. Abbiamo dunque in primo luogo questa responsabilità politica; poi c’è tutta la rete delle varie CasaPound, Forza nuova, frammenti della destra innervati nel tifo delle curve calcistiche. C’è dunque questa infrastruttura politica, che ha offerto non solo ideologia e linguaggio, ma anche nuclei di militanza a episodi di questo tipo.
In che modo si può rispondere politicamente? Quale può essere il ruolo dei partiti e delle associazioni di sinistra?
Devo dire sinceramente che la risposta torinese è stata debolissima. È stato forte e importante l’intervento del ministro Riccardi, è stato davvero un segno di grande importanza. Il ministro è venuto a Torino, ha visitato l’insediamento, ha parlato con i superstiti. Le istituzioni torinesi invece o hanno taciuto (penso alla Regione) o nella persona del Sindaco, hanno condannato verbalmente il linciaggio (e ci mancherebbe altro), ma non hanno fatto seguire atti amministrativi significativi. Per esperienza temo che la ricaduta del pogrom sarà un tentativo di sgombero dell’insediamento, di allontanare queste persone invece di integrarle. La politica - anche di sinistra - di queste città, dopo la deprecazione dei primissimi giorni, non ha risposto. La risposta è venuta invece dalle tante le strutture del volontariato - come il Gruppo Abele di don Ciotti, che come sempre ha detto parole molto giuste.
Insomma il razzismo è uno dei tanti tempi su cui la sinistra più laicista e il cristianesimo più volenteroso potrebbero trovare un accordo.
Assolutamente, questo è anzi un terreno sul quale la sinistra ha da imparare tutto un linguaggio che è stato elaborato in questi anni da quella parte del mondo cattolico che ha continuato a restare dentro le pieghe del tessuto sociale. Strutture come la Caritas o appunto il Gruppo Abele sono ormai gli unici operatori presenti sul territorio, in grado di fare ascolto su ciò che accade in un mondo altrimenti opaco. La sinistra si è ritirata nelle istituizioni e si è concentrata, per così dire, sull’alto, tralasciando i problemi del basso; è ora che le forze politiche ritornino sul territorio per ascoltare e interpretare, soprattutto in periferia. Le sedi politiche delle periferie vanno riaperte, va riproposta la difesa dei diritti di questi cittadini, prima che questi - spogliati di ogni dignità - diventino i primi persecutori di chi ha ancora meno di loro. È una spirale che è indispensabile spezzare.
Riusciremo mai a liberarci dal razzismo?
È difficilissimo, ma non impossibile. E per farcela bisogna percorrere la “via stretta” dell’ascolto dell’altro. Un lavoro immenso, ma che vale certamente la pena.
(«l'Altrapagina», gennaio 2012)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano