mercoledì 22 febbraio 2012

Gesù è stato il primo pacifista. Intervista ad Alex Zanotelli

Padre Alex Zanotelli, missionario comboniano, per molti anni direttore di «Nigrizia», autore di diversi libri (con «l’Altrapagina» ha pubblicato Il ritorno della guerra), tratta da sempre le tematiche della pace e del disarmo. Abbiamo affrontato con lui alcuni nodi di questo spettro di cui l’Occidente sembra proprio incapace di liberarsi: la guerra.

Duemila anni fa Gesù Cristo è venuto a parlarci di pace; oggi la guerra non è ancora scomparsa dal pianeta. Perché?
Bella domanda, magari si potesse rispondere definitivamente. Penso che in parte la presenza della guerra sia dovuta al fatto che i cristiani non hanno preso seriamente Gesù, in particolare il suo messaggio di pace. Qualcuno storcerà il naso per questa affermazione ma io, dopo aver studiato Gandhi ed essere ritornato al Vangelo, forte di tutta l’odierna ricostruzione del Gesù storico, posso affermare con tranquillità che l’“inventore” della nonviolenza attiva non è stato Gandhi, ma Gesù. Lo stesso Gandhi non negava di aver trovato nel Vangelo una fonte della sua ispirazione, al punto che quando gli chiedevano perché non si convertisse al cristianesimo lui non ne faceva una questione dottrinaria o di principio, ma evidenziava lo scollamento fra il messaggio di pace del Vangelo e il comportamento concreto dei cristiani in Occidente, tutt’altro che pacifico.
Agli albori del cristianesimo si dava più centralità alla pace.
È vero, bisogna riconoscerlo: le prime comunità cristiane sono rimaste fedeli al rifiuto della violenza, e hanno pagato con la vita la loro fedeltà. Le comunità cristiane, per i primi trecento anni, imponevano a coloro che chiedevano il battesimo la rinuncia all’esercito. O l’uno, o l’altro. Io penso che se le Chiese oggi avessero il coraggio di chiedere semplicemente questo, farebbero cadere il sistema.
Si continuano in tutto il mondo campagne di guerra chiamate “missioni di pace”. La guerra è veramente in grado di portare la pace?
Chiarissimamente no. Ormai l’abbiamo provato in tutte le salse. Sono molto amareggiato dalla totale menzogna (ma forse il termine è perfino troppo debole) cui è giunto il sistema militare/mediatico, al punto che non si capisce più nulla. Sono d’accordo con quanto disse Arundhati Roy nell’attacco a Bush sulla guerra in Afghanistan: “ormai la guerra è pace”. È così; ci siamo presi talmente in giro che non ci rendiamo neanche più conto di questa terribile evidenza: riusciamo a mantenere la nostra pace (all’interno) solo facendo la guerra (all’esterno). La guerra in Irak, ad esempio, costruita sulle bugie più colossali mai inventate da un governo, è costata da sola (cito statistiche statunitesnsi) 4.000 miliardi di dollari. Per fare che cosa? Non certo per costruire la pace (perché in Irak non ce n’è), bensì per portare in quello sventurato Paese tanto di quell’odio e di quel rancore da aver generato di punto in bianco un fondamentalismo che - durante il regime di Saddam Hussein - non esisteva. Lo abbiamo creato noi.
Una menzogna che vale per la guerra, ma forse ancor prima per la produzione e il commercio di armi.
Certo, basti pensare a quello che spendiamo in armi: nel solo 2010 abbiamo speso a livello mondiale 1.640 miliardi di dollari (l’Italia, nel suo “piccolo”, ha speso 27 miliardi di euro). Se a questi aggiungiamo i 17 miliardi di euro che sono previsti quest’anno per l’acquisto di aerei da combattimento, arriviamo alla cifra necessaria all’intera manovra di Monti. Quante cose si sarebbero potute fare con quei soldi. Insomma: è una presa in giro gigantesca.
E in televisione, dove c’è spazio per tutto, non si parla di queste cose. Ad esempio, non si parla del fatto che l’Italia - nel bel mezzo di una devastante manovra economica - non rinunci a spendere, appunto, 17 miliardi di euro per acquistare 131 cacciabombardieri.
È una cosa veramente assurda. Il servizio pubblico, che dovrebbe informare la gente su quello che avviene, è il servizio più privatizzato che abbiamo. Ormai tutte le nostre televisioni sono nelle mani dei potentati economico-finanziari, che fanno affari con le armi. Non possiamo certo competere con la televisione: così, quando raccontiamo queste cose, la gente rimane frastornata e pensa: “ma no, non può essere vero, in televisione una cosa del genere si sarebbe sentita”. Ma in televisione queste cose non si sentiranno mai, perché gli interessi sono troppo grossi.
L’Italia è uno dei principali produttori di armi al mondo; molte vengono vendute alle peggiori dittature (ad es., quella di Gheddafi). Possiamo starcene con la coscienza tranquilla?
Il ruolo italiano nel giro delle armi è veramente grosso. Non c’è nulla da fare. Nel solo 2009 le esportazioni italiane di armi hanno raggiunto il valore di 5 miliardi di euro; armi che vengono vendute a Paesi dove sono in corso conflitti, cosa tra l’altro proibita dalla legge italiana. Ma è chiaro a tutti che i governi sono i primi a non rispettare le proprie leggi: di fatto, fanno quello che vogliono. Un’indagine recente ha portato alla luce, dati alla mano, il livello di connivenza tra politica e industria delle armi: pare che ai partiti venisse “riconosciuto” un margine sulle vendite compreso tra il 10 e il 15 percento. Nessuna riforma al riguardo può essere sufficiente; c’è bisogno di un cambiamento radicale.
Un problema solo italiano?
Tutt’altro, ed è eclatante in proposito la situazione del Stati Uniti, dove il Presidente Obama è ostaggio dei rappresentanti politici del complesso militar-industriale. Fu proprio un militare, nonché Presidente USA, il generale Dwight Eisenhower, a dirlo nella maniera più chiara possibile, nel suo ultimo discorso alla Nazione: “gli Stati Uniti d’America sono ormai un Paese forte e solido, che non ha avversari militari da temere. L’unico vero nemico della democrazia americana viene dall’interno: è il complesso militar-industriale”. Impossibile pronunciare parole più profetiche di queste. Ma c’è anche un altro problema.
Cioè?
C’è una cosa ancora più incredibile: non esiste un solo studio, una sola ricerca internazionale, un solo dibattito mediatico sull’impatto ambientale della produzione e dell’utilizzo delle armi. Niente di niente. È pazzesco. In tempi in cui ci domandiamo con preoccupazione crescente dell’aumento della temperatura globale, nessuno si domanda quale sia il danno in termini di emissioni e di inquinamento prodotto dai conflitti e dall’industria militare. Quello che più mi preoccupa è il silenzio delle Chiese ufficiali su questi temi.
Zygmunt Bauman (nel suo recente Conversazioni sull’educazione, scritto con Riccardo Mazzeo, ed. Erickson, 2012) scrive che la guerra ce l’abbiamo attorno tutti i giorni: è quella che facciamo agli esclusi, agli emarginati, cui la nostra società preclude l’accesso al consumo, al lavoro, alla rilevanza collettiva.
Sì, in parte ha ragione, in parte forse no, perché la cosa è più complessa. Penso che pochi abbiano capito così bene la connessione fra armi ed economia come Francesco d’Assisi. Io ricordo spesso l’episodio in cui Francesco si presenta con suo padre davanti al vescovo e si spoglia davanti a loro di tutte le sue vesti. Alla domanda “Che fai?”, egli risponde (pare che si tratti delle autentiche parole pronunciate da san Francesco): “padre, se io ho, devo avere le armi per difendere quello che ho”. È chiaro che le armi ci servono a difendere il nostro posto privilegiato nel mondo; è talmente ovvio! “Gli americani non possono rinunciare alla bomba atomica - diceva l’arcivescovo di Seattle - perché ciò significherebbe rinunciare al loro stile di vita”. Quello stile per il quale il 20% della popolazione mondiale consuma l’83% delle risorse del pianeta. Il problema sta tutto qui. La lettura di Bauman è giusta, ma io credo che si debba partire da questa connessione fra armi e stile di vita.
Gli americani parlano spesso del loro stile di vita, forse senza riflettere troppo su tutto ciò che tale stile comporta.
Ero a Korogocho quando lo sentii dire con estrema chiarezza dal Presidente Bush nel ‘92: “lo stile di vita degli americani non è negoziabile”. Sobbalzai dalla sedia. Se lo stile di vita non è negoziabile, allora bisogna difenderlo. Cioè, fare la guerra.
Una parola di speranza: riusciremo mai a liberarci della guerra?
Dobbiamo liberarci della guerra. Sono sempre più convinto che, se non vi riusciamo, sarà la fine per tutti noi. Per la minaccia atomica, certo (al momento abbiamo il potenziale nucleare per far saltare in aria questo mondo ben 4 volte); ma anche perché questo sistema economico ingiusto, basato sul binomio armi-privilegi, finirà per esplodere. Sono convinto inoltre che il problema ambientale metterà l’uomo in condizione di fare un salto di qualità (magari come pensava il grande Ernesto Balducci). Ed è quello che attendiamo tutti. Credo, come cristiano, che Dio non farà miracoli; ma che, come Dio della Vita, non ci abbandonerà.
(«l'Altrapagina», febbraio 2012)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano