Baltasar Garzón è un giudice spagnolo che ha sempre fatto molto parlare di sé in tutto il mondo e continua a farlo. Ma forse meglio dovrei dire che “era” un giudice: il 9 febbraio scorso la Corte Suprema di Madrid lo ha condannato a undici anni di interdizione dalla magistratura per abuso di potere.
Dopo aver indagato sul narcotraffico, sul terrorismo basco, sul franchismo e anche sul caso Telecinco di Silvio Berlusconi (il quale - indovinate un po’ - non poté essere processato per l’immunità di cui godeva in quanto membro del Consiglio d’Europa), il “super-giudice” viene fatto fuori dalla magistratura. Almeno questa è la lettura della sinistra spagnola, come quella del quotidiano «El País», il quale afferma che la corte ha semplicemente inteso “cancellare Garzón come magistrato”; mentre a destra, oltre alle attestazioni di rispetto per la decisione della corte in qunto tale, si sostiene invece che il giudice starebbe “pagando per i suoi eccessi” (così il quotidiano conservatore «ABC»).
Garzón è stato condannato per aver ordinato delle intercettazioni ritenute illegali ai danni di esponenti politici reclusi per corruzione. Al riguardo si può pensare che la sentenza implichi “la fine della carriera di un giudice che, qualunque sia l’opinione che se ne può avere, ha reso un servizio importante alla società spagnola nella lotta al terrorismo, al traffico di droga e al crimine organizzato, e ha giocato un ruolo di primo piano nell’applicazione della giustizia universale” (ancora «El País»); il che non giustificherebbe tuttavia l’uso arbitrario ed anzi illegittimo dei mezzi della giustizia. O si può ritenere che più importante ancora di queste considerazioni sia il fatto che nessuno può ritenersi al di sopra della legge e che quindi sacrosanta è la sanzione della trasgressione; e tuttavia ciò non riesce a mascherare il fatto che la sentenza abbia un alto valore simbolico, sospendendo il giudice in maniera definitiva (cioè fino alla pensione), che ricorda quella esemplare dei 500 anni di carcere inflitti a Madoff.
Non voglio entrare nel merito, non è per questo che ho cominciato a scrivere il ritratto di Baltasar Garzón. Per un motivo molto più personale e, se vogliamo, sentimentale, quest’uomo ha sempre avuto un posticino riservato nel mio cuore, fin da quando - era il 1998 - emise il mandato di cattura internazionale per Augusto Pinochet, allora ricoverato in una clinica londinese. Quando ne ebbi la notizia mi sentii come Tardelli dopo il gol nella finale dell’82: credetti di esplodere dalla gioia e da quel momento associai il nome di Garzón alla mia idea di giustizia. Poi, siccome il male trionfa sempre, Pinochet - dopo essere stato trattenuto in Gran Bretagna per oltre 500 giorni, per essere rilasciato grazie all’intervento dell’allora ministro della giustizia Jack Straw - è tornato a casa sua, nell’accoglienza festosa di tutto l’esercito (con la tristemente celebre scenetta del “miracolo”, l’invalido che si alza dalla sua sedia a rotelle e saluta i generali passeggiando). Vorrei trovare delle parole più adatte, ma resta il fatto che Baltasar Garzón mi ha, come si dice, regalato un sogno. Per questo non riesco a smettere di essergli grato, non posso che pensare a lui con grandissimo affetto. E non posso che gioire per le ultime notizie: il 27 febbraio 2012 è stato assolto dall’ulteriore accusa di abuso d’ufficio nelle indagini sulle vittime del regime franchista. Bravo, Baltasar.
(«Il Caffè» 23 marzo 2012)
domenica 25 marzo 2012
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