domenica 20 maggio 2012

Il fascino discreto della mafia

Consideriamo generalmente un progresso il fatto che i cittadini non reagiscano ai soprusi facendosi giustizia da sé, ma delegando al potere pubblico della polizia e dei tribunali l’amministrazione dell’ordine costituito. Tanto che il termine “Far West” - luogo in cui ciascuno provvedeva da sé, con la propria pistola, a regolarsi i conti - viene usato con accezione dispregiativa, in senso di “selvaggio, caotico”.
Questo è chiaro. È meno chiaro però che non tutti la pensino così e che l’idea del singolo che si fa giustizia da sé in quanto è in grado di farlo - perché coraggioso, fiero, aitante - è ancora molto in voga (nonostante l’epoca cavalleresca sia tramontata da un pezzo) e conosce oggi una nuova stagione di celebrità, alimentata anche dallo spirito dei tempi, i cui modi di pensare, parlare, relazionarsi sono intrisi dei miti della forza, della ricchezza, del successo.
Lo spiega Iole Di Simone nel suo Il sistema culturale mafioso (ed. Bonanno, 2011): la cultura mafiogena, terreno su cui germoglia la malapianta mafiosa, è tutt’altro che estinta; in altre parole, la mafia continua a esistere perché continua a piacere. Il mafioso continua a essere visto da ampi strati della popolazione come colui che, provenendo dal popolo (cioè dal nulla), è riuscito a farsi strada (a “diventare qualcuno”). Anche se poi diventa proprio come quei potenti contro i quali inizialmente si è ribellato. Anche se poi usa il suo nuovo potere per opprimere gli indifesi (sulle cui spalle prospera).

Il 23 maggio 1992 il giudice Giovanni Falcone veniva ucciso dalla mafia. Un eroe da ricordare

L’autrice parte dall’analisi storica del termine “mafia”: usato per la prima volta in un documento del 1658 come soprannome di una strega (nel senso di arrogante e assetato di potere), il termine va via via assumendo una connotazione positiva. Così nell’800 lo si usa per le donne in riferimento alla bellezza e alla baldanza, finché il Pitré lo consacra con queste parole: «il mafioso non è un malandrino, è semplicemente un uomo coraggioso e valente, che non porta mosca sul naso. La Mafia è coscienza della forza individuale, il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, ma sa farsi ragione da sé» (citato a p. 13).
Evidentemente nata in una cultura della sfiducia nei confronti di un potere statale ingiusto e vessatorio nei confronti dei poveri, la figura del mafioso viene letta alla luce di una saggezza popolare (criticabile ma non incomprensibile) per la quale «se i ricchi non fanno che rubare al povero, non è peccato se il povero ruba al ricco» (p. 112; sulla connessione mafia-cristianesimo si legga l’ottimo lavoro di Augusto Cavadi dal titolo Il Dio dei mafiosi, del 2009: http://goo.gl/67kfG).
È ovvio quindi (ma certe cose vanno ripetute fino alla noia e anche oltre, perché pare che non ci sia nulla di più difficile da realizzare di ciò che è necessario e urgente) che la lotta alla criminalità organizzata, problema di tutti i governi, presuppone uno Stato credibile e giusto, trasparente e in grado di far rispettare la legge, fondato su una società equa che abbia digerito i miti della forza, dell’avidità e della visibilità a tutti i costi e che li abbia espulsi definitivamente. Dobbiamo arrivare a disgustarci di queste cose; solo allora ci disgusteremo anche della mafia. Su questo insiste Di Simone: la mafia ce l’abbiamo perché la vogliamo e la vogliamo perché ci piace. Il fatto è che, come le sigarette, la mafia nuoce gravemente alla salute. Sarebbe ora di smettere.

(«Il Caffè», 19 maggio 2012)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano