Molto ben riuscito il tentativo della rivista filosofica «Paradosso», semestrale edito da Il Poligrafo, di dar vita a un numero monografico dedicato a L’affettività del pensiero. Tanto più quanto in aperta controtendenza all’offensiva massiccia e senza quartiere dell’oggettività e della neutralità, sia nella forma del realismo filosofico sia in quella del meccanicismo neuroscientifico. Una voce dunque benvenuta anche perché necessaria, in uno spazio collettivo di riflessione in cui continuano a spadroneggiare - a mezzo millennio di distanza - i tanti dualismi cartesiani ancora in circolazione con le tante loro distinzioni, separazioni, frammentazioni del sapere e del soggetto umano.
Parlare dell’affettività del pensiero è un compito importante e urgente: non solo perché il pensiero dell’uomo reca in sé l’impronta dello stato d’animo fondamentale, caratterizzandosi per una sua specifica e imprescindibile tonalità emotiva (come ricorda Laura Sanò, citando Heidegger, nel suo saggio sul rapporto tra l’intelligenza e la sensibilità), ma anche perché è a causa di questa rottura dell’unità a monte che si può poi concepire a valle un pensiero neutrale rispetto ai propri fini o una scienza che ritenga di non essere tenuta a fare i conti con la morale.
Il pensiero e l’affettività sono legati. All’inizio del processo razionale, come ricorda Umberto Curi nel suo dotto e ricco saggio introduttivo, in cui all’origine del pensare figura il pathos, in particolare nella forma del thauma: «la filosofia non comincia quando al calore delle passioni si sostituisca il freddo rigore di una ragione apatica. Esattamente al contrario: essa non sarebbe neppure concepibile sganciata dalla polivalente esperienza del thaumazein, del “timore e tremore” in esso racchiuso»; cui fa eco l’altra curatrice nel suo saggio su Hannah Arendt. E sono legati anche alla fine, in quanto il pensiero genera emozioni (come sottolinea Failla nella sua riflessione su Kant, nell’articolo “Sul coraggio della ragione pura”). Ma, di più, il pensiero è sempre - non solo all’inizio e alla fine, ma anche durante il processo razionale - connotato affettivamente dalla presenza del soggetto pensante all’interno di un contesto cui - in qualunque senso lo si voglia percepire o intendere - è impossibile rimanere indifferenti; sia che lo si viva come qualcosa verso cui provare empatia, sia che lo si veda come un fondo da sfruttare fino alla distruzione. Non esiste alcuna neutralità del pensiero: il pensiero che si pretende neutrale non sta facendo altro che occultare la propria scelta di campo (la propria volontà di potenza, in termini nietzschiani).
Il testo si sviluppa tra le riflessioni citate e quelle a cavallo fra il cinema e la pittura, e si conclude con una traduzione inedita di Martin Heidegger a cura di Chiara Pasqualin e con un suggestivo testo di Carlo Sini sull’esperienza della verità.
U. Curi e B. Giacomini, L’affettività del pensiero, ed. Il Poligrafo, 2012/I, «Paradosso», rivista semestrale diretta da U. Curi, M. Cacciari, S. Givone, G. Marramao, C. Sini, V. Vitiello, pp. 260, euro 25.
(«Pagina3», 28 maggio 2012)
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